Caschi Bianchi Ecuador

Ibarra: un’apparenza che inganna

Sono molte e contrastanti le emozioni che si provano lavorando a stretto contatto con persone costrette a lasciare tutto e riiniziare da zero: conoscere i propri diritti per poterne esigere il rispetto è fondamentale e aiutare le persone a raggiungere questa consapevolezza mi dà la sensazione di riuscire a migliorare la loro vita.

Scritto da Chiara Aniello, Casco Bianco in Servizio Civile con FOCSIV a Ibarra.

Ogni mattina inizia con il buongiorno dell’imponente Imbabura, che con la sua cima perennemente coperta dalle nubi mi ricorda di vivere sulle Ande ecuadoriane, a più di 2.000 metri dal livello del mare. Ibarra nonostante i suoi 130.000 abitanti, ricorda uno di quei paesetti della provincia italiani dove tutti conoscono tutti e dove le montagne e il verde che la circondano hanno creato quell’ “effetto bolla” che ha permesso alla città e a los pueblos circostanti di mantenere le distanze dalla più frenetica e moderna vita della capitale, conservando allo stesso tempo costumi e tradizioni ancestrali. La vita ad Ibarra scorre tranquilla, senza fretta, in armonia con i ritmi della naturaleza e le persone che vi abitano si contraddistinguono per quella gentilezza e riservatezza tipica delle popolazioni andine, poco abituate ai modi ben più diretti e esuberanti delle persone della costa o dei paesi vicini.

L’ apparente serenità della città nasconde però una realtà ben più complessa e problematica, fatta di precarietà, povertà e discriminazione, situazione esacerbata dal consistente flusso migratorio che dal 2018 a questa parte attraversa la città. Sono centinaia le persone provenienti soprattutto da Venezuela e Colombia che ogni giorno cercano di attraversare l’Ecuador, fuggendo da situazioni di violenza o spinte dal desiderio di raggiungere i più prosperi Peru e Cile in cerca di una vita migliore. Basti pensare che secondo le stime dell’UNHCR attualmente ci sono tra le 61 e le 112 mila persone in condizione di mobilità tra la frontiera nord del paese e la provincia di Imbabura – di cui Ibarra è capoluogo. La città si trova di fatto in una posizione strategica, situata a metà strada tra la frontiera con la Colombia e la capitale Quito. Sebbene si tratti principalmente di una zona di transito, ultimamente sono molti i migranti che, attratti dal clima mite e dalle opportunità lavorative offerte dal settore tessile, della floricultura e del turismo, decidono di fermarsi e trasformarla in casa propria. L’elevata presenza migratoria rappresenta una sfida ben complicata per la provincia di Imbabura, già duramente colpita dal paro del 2019 e da 3 anni di pandemia. Inoltre, il fatto che il fenomeno sia estremamente visibile non fa che amplificare quella diffidenza e sensazione di insicurezza tra la popolazione locale: a causa dell’inefficacia (o meglio inesistenza) delle politiche migratorie e delle misure di protezione adottate dalle istituzioni, sono molte le famiglie che ogni giorno mendicano nelle strade e dormono nei parchi in situazioni di estrema vulnerabilità. Basti pensare che l’unica casa di accoglienza per persone in mobilita umana nell’intera città ha la capacita di ospitare solo 14 famiglie. Si tratta della casa gestita dalla Misiòn Scalabriniana, l’organizzazione con cui sto svolgendo il mio anno di servizio civile ormai quasi giunto al termine. Per poter dare al numero più ampio di persone la possibilità di riposare, ogni famiglia può soggiornare nella casa per un numero massimo di 5 giorni, trascorsi i quali, inutile dire, molti ritornano a dormire in strada.

Il vuoto lasciato dallo Stato viene pertanto occupato dalle organizzazioni del terzo settore che fanno del loro meglio per alleviare le condizioni di vita delle persone in situazione di calle, con programmi di aiuti umanitari e servizi di assistenza psicologica e legale. Ovviamente i numeri sono talmente elevati che richiederebbero un piano di intervenzione, protezione e regolarizzazione gestito a livello nazionale e attuato a livello locale, ma per ragioni politiche si preferisce adottare misure che rendono la situazione di migliaia di persone ancora più precaria, strizzando l’occhio al clima di xenofobia e odio sempre più diffuso nel paese. Esempi concreti sono la decisione del municipio di chiudere un centro di accoglienza che ospitava fino a 30 famiglie, l’attuale ipotesi di chiudere il comedor municipal (mensa) dove vanno a mangiare non solo i migranti, ma gli stessi ecuadoriani in situazione di indigenza e il nuovo decreto che invece di facilitare la regolarizzazione di chi si è trovato obbligato a passare por trocha (sentieri irregolari) la rende praticamente impossibile.

Tali politiche non fanno che provocare maggior insicurezza, lasciando per strada centinaia di persone che si ritrovano costrette a fare di tutto per sopravvivere. È un gatto che si mangia la coda: le politiche adottate per ridurre furti, aggressioni e insicurezza non fanno altro che aumentare questo circolo di violenza che “sfianca” la popolazione locale sempre più intollerante e xenofoba. Il lavoro delle Organizzazioni Non Governative è quindi piuttosto complesso in quanto ci si trova da soli a sfidare un sistema estremamente discriminante e la volontà di aiutare realmente, restituendo dignità a chi si vede costretto a percorrere migliaia di km con bambini e neonati senza nessuna certezza e garanzia, si scontra con la frustrazione di sentire di non poter fare abbastanza.

Sicuramente agli occhi delle famiglie ospitate nella casa della Missione è un sospiro di sollievo poter dormire in un luogo caldo e sicuro anche solo per quattro notti e passare del tempo spensierato e utile per potersi orientare nella nuova realtà in cui si ritrovano catapultati. Non si tratta di una semplice casa di accoglienza quanto piuttosto di un ‘Centro di attenzione integrale’ dove le famiglie durante la loro permanenza vengono accompagnate con attività ludiche, di sostegno psicologico e di orientamento legale, cosa di cui mi occupo con l’avvocata della Missione. Il mio lavoro consiste nel fornire assistenza per agevolare l’accesso a diritti e servizi delle famiglie ospitate e di chiunque necessiti di un supporto e attraverso talleres (laboratori) e incontri formativi di spiegare le possibili vie per regolarizzare la propria posizione nel paese. Inoltre, proprio per contrastare il clima d’odio nel barrio dove lavoriamo, stiamo implementando un progetto con la comunità locale chiamato “Comunidades sin barreras” (comunità senza barriere) proprio con l’obiettivo di favorire l’integrazione e una cultura di pace e non violenza.

Sono molte e contrastanti le emozioni che si provano lavorando a stretto contatto con persone costrette a lasciare tutto e riiniziare da zero; la maggior parte di loro arrivano al Centro completamente spaesate, senza sapere ad esempio che salute e educazione sono servizi gratuiti in Ecuador e che possono usufruirne senza dover dimostrare nulla a nessuno. Credo che sapere quali siano i diritti di cui godiamo per poter esigerne il rispetto sia di fondamentale importanza e aiutare le persone a raggiungere questa consapevolezza mi dà la sensazione di riuscire a migliorare, anche se solo di poco, la loro vita. Sono grata per aver potuto vivere un’esperienza tanto intensa e totalizzante che ha dato ulteriore conferma alla mia vocazione: è questo ciò che voglio fare nella vita, continuando a “ser migrante con los migrantes” (Giovanni Battista Scalabrini).

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