Siamo quasi giunti alla fine di questo viaggio che mi ha visto impiegato per un anno come Casco Bianco. Un anno travagliato, fatto di viaggi, incognite, continui cambi di mete, rimbalzato da una parte all’altra. Un anno dove tutte le difficoltà però hanno portato con sé elementi di straordinaria sorpresa, di stupore, di scoperta e di vicinanza verso persone che fino a poco tempo fa non avrei mai immaginato di poter incontrare.
Il tutto è iniziato lo scorso anno, quando decisi di dedicarmi per dodici mesi ad un progetto in Bangladesh. Progetto che sin dall’inizio, però, ha trovato un monte troppo alto da essere scalato: il coronavirus è una cattiva bestia quando si programmano itinerari del genere, e la burocrazia del Paese non è stata di certo più clemente nel favorire questo percorso. E così, ancora prima di partire, ero già senza meta. Forse il destino mi voleva dire che quest’anno doveva essere un po’ così – affidarmi all’andare delle cose senza pretendere troppo da quello che mi circondava. E così feci allora, e grazie alla disponibilità di Giovanna riuscii a trovare la mia meta: la casa-famiglia a Ratnapura, in Sri Lanka.
Qui ho speso i primi sei mesi del mio servizio civile, venendo via via sempre più avvolto dalle vicende di casa, entrando in stretto contatto con tutti i ragazzi accolti e trovando nella loro felicità uno dei più importanti motivi per poter continuare questo cammino. Perché sì, anche in loco le difficoltà non sono mancate: la variante delta del Coronavirus ha costretto tutti noi in casa a dover vivere un lungo tempo di quarantena. In quei giorni, le ore sembravano anni e il tempo non passava mai, ma in questo tempo-non tempo quello che si cementava di più era il rapporto con loro. Piccoli rituali della giornata che diventavano momenti importanti di pura condivisione di sé. E così lentamente ci trasformavamo in una sorta di famiglia, dove lo scambio di idee, pensieri, gesti o anche solo sorrisi diventano elementi clou. Così, in questo ritrovarsi nell’altro sicuramente io sono riuscito a raccogliere volti, storie, vicende che porterò con me per tutta la vita – un modo nuovo per creare la pace, senza salvare il mondo ma aiutandosi a vicenda.
Questa avventura però già a novembre si era trovata costretta ad avere un primo stop: per questioni legate ai visti, infatti, hanno dovuto far rientrare me, Valentina e Clelia (le altre due Caschi Bianchi che hanno condiviso con me lacrime e gioie dello Sri Lanka) e, dopo la quarantena, abbiamo potuto collaborare con il centro socio-occupazionale Biancospino a Rimini. Nonostante il periodo veramente breve a nostra disposizione, anche questo momento del servizio civile a me è stato particolarmente caro: vedere come persone con diverse problematiche (da portatori di varie forme di disabilità a persone senza fissa dimora passando per ex detenuti) riescono a collaborare per poter far funzionare questo centro, per loro luogo dove passare momenti di straordinaria ordinarietà, mi ha mostrato ancora una volta quanto sia importante vivere il gusto delle piccole cose, e mi ha permesso di riconsiderare elementi che riterrei altresì noiosi come momenti per costruire qualcosa, insieme, portando ognuno ciò che può.
Ritornati poi in Sri Lanka, finalmente il Paese cominciava ad aprirsi, e con esso anche le attività svolte con la casa-famiglia. In particolare, il centro diurno è stato un elemento importante di questa seconda fase: iniziando con i ragazzi di casa e i cinque utenti esterni un progetto legato al rispetto della natura, diventava per tutti sempre più evidente come proprio questo tema fosse un elemento centrale per poter progredire in ogni relazione, non solo quelle con la natura stessa. Così, nello sguardo di Jayanthi che con fierezza raccontava a Giovanna la storia da cui abbiamo preso spunto per il progetto, ho trovato quella voglia di cambiamento nel piccolo che poi si è concretizzata anche qui in piccole attività che miravano a migliorare la vita della casa-famiglia e del circondario. Attività che, tuttavia, non siamo riusciti a portare al loro massimo compimento – causa altri imprevisti.
Nuovamente a casa ancora per il rinnovo visto, infatti, questa volta ci giunge un’altra notizia: non potremo più entrare in Sri Lanka perché probabilmente siamo stati tutti e tre banditi dall’isola. Forse era una notizia che un po’ era nell’aria, ma, sebbene fosse pronto un piano b, la Thailandia, la sensazione che si respirava nell’aria era solo una: sconforto. Che si è acuito con la decisione di Clelia di abbandonare, perché sentiva di essere al limite e di avere dato il suo massimo.
Ma prima di arrivare nel Paese dei sorrisi, bisognava ancora una volta fronteggiare un (più snello) iter burocratico. Così, nell’attesa, ecco che io e Valentina, i due superstiti, eravamo ancora una volta in viaggio verso Rimini, per aiutare nella gestione delle famiglie ucraine presso lo Stella Maris, la colonia della Comunità Papa Giovanni XXIII.
Un nuovo viaggio, nuovi volti, nuove storie. Questa volta erano storie di mamme e bambini che fuggivano da un conflitto che ci tocca tutt’oggi. Storie davvero pesanti, ma raccontate con un desiderio di riscatto e di speranza che stringevano il cuore. Mentre le notizie della guerra diventavano via via più gravi, infatti, loro non abbandonavano il proprio sorriso, con lo sguardo di chi vuole che tutto questo diventi presto solo un brutto sogno. Non so se sono riuscito a lasciare loro qualcosa, ma spero veramente che, in un qualche modo, la mia presenza possa essere stata per loro un’occasione per pensare ad altro.
Finita questa esperienza breve ma veramente forte, ecco la nuova partenza: destinazione Pak Kret, una cittadina che nasce come periferia di Bangkok, in Thailandia, e che ospita una casa-famiglia della Comunità: la Angels’ Home. Qui è dove mi trovo tutt’ora, insieme a Valentina e alle altre due Caschi Bianco partite mesi prima, Lucrezia e Michela. Anche qui un’esperienza breve. “Dubito che riuscirò ad attaccarmi ai nuovi ragazzi accolti come quelli in Sri Lanka”, pensavo ingenuamente prima di partire. Ma loro, i veri protagonisti della casa, mi hanno disarmato: con i loro sorrisi, con i loro sguardi che ti avvolgono sono riusciti a conquistarmi in breve tempo, ognuno a modo suo.
Ma qui non è solo casa-famiglia: grazie alla volontà di Andreina di costruire una vera e propria rete sociale, infatti, siamo riusciti a collaborare con altre associazioni e a operare con loro o in solitaria anche in diverse slum – le baraccopoli di Bangkok. Venire a contatto con queste realtà mi ha messo ancora una volta di fronte ad una realtà inconfutabile: l’ingegno umano lo si può trovare dappertutto. E così i bambini che vivono lì riescono ogni giorno a sorprendermi per come riescono a trovare nelle cose semplici qualcosa di speciale. La loro curiosità è così una vittoria per tutti quanti: in primis loro, che potranno così trovare spunti nuovi per poter vivere con maggiore dignità. Ma anche per noi volontari, che lì possiamo riscoprire una parte di noi andata quasi perduta.
Ecco, questo per ora è stato il mio anno di servizio civile. Se dovessi riassumere in una sola parola quello che tutte queste persone mi hanno lasciato, probabilmente direi voglia di pace. Ma una pace che si costruisce: nei rituali degli accolti in Sri Lanka; nella voglia rivalsa che ho visto tanto nelle persone del Biancospino quanto nelle donne ucraine; nella curiosità dei bimbi negli slum di Bangkok; nei sorrisi di chi si è fatto prossimo. Ed è così che, forse, la cosa principale che mi sento di aver lasciato in ogni posto che ho vissuto è un pezzo di cuore, stupito ed aperto, che spero possa essere stato recepito dagli altri e che possa essere stato loro utile in qualsiasi modo.
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