Caschi Bianchi Romania

Oltre le paure e la stanchezza

La complessa realtà delle persone senza fissa dimora a Bucarest

Scritto da Giovanni Corti, Casco Bianco in Servizio Civile con Apg23 a Bucarest

4 Marzo 2022 – Mi trovo a Bucarest come volontario in Servizio Civile Universale, tramite la Comunità Papa Giovanni XXIII. Mi trovo qui a partire dallo scorso 27 luglio e opero presso la ‘Capanna di Betlemme’, una struttura dell’ente che accoglie persone senza fissa dimora. Il progetto cui ho preso parte trova i suoi principali destinatari nelle persone senza fissa dimora della città, le quali vengono ospitate in struttura per periodi di durata variabile (dalla singola notte ai diversi mesi), oppure ricevono un pasto nei momenti in cui viene effettuata l’unità di strada, per tre sere alla settimana. Il progetto coinvolge anche altre due tipologie di destinatari: i bambini poveri del quartiere degradato di Ferentari ed i ragazzi con handicap del centro Don Luigi Orione, a Voluntari, fuori città.

Voglio prendermi questo momento di riflessione per fare un po’ il punto su quello che sto vivendo in questo anno di Servizio Civile Universale. È difficile capire da dove cominciare, cosa condividere e in che modo. Certamente non è una esperienza facile. Questo mio giudizio è dettato da una duplice motivazione: una motivazione ontologica, e quindi più oggettiva e legata al contesto in cui sto svolgendo il servizio e una motivazione più personale, soggettiva. Per forza di cose, le due motivazioni vengono a sovrapporsi nel momento in cui io agisco in questo contesto. Descriverò brevemente ambedue le cause della mia affermazione iniziale, per poi giungere a constatare la loro interdipendenza.

In primo luogo, il contesto in cui sto svolgendo il servizio non invita certo all’ottimismo, in tutte le principali attività in cui esso si articola. In particolare, la realtà delle persone senza fissa dimora di Bucarest è davvero complessa. Molte delle persone che incontriamo durante l’unità di strada o che ospitiamo nella struttura, hanno una storia, passata o presente, intrecciata con una o più dipendenze (droga, alcool, gioco, sesso), caratterizzata da abbandoni, abusi, sfruttamenti in ambito lavorativo e situazioni difficili a livello familiare. Parlando con il responsabile del progetto ho saputo che diverse decine – se non centinaia – di persone senza fissa dimora sono passate per periodi che vanno dalla singola notte ai diversi mesi, dalla struttura dell’associazione, ma nessuna di queste persone ha cambiato vita. Già questo rende l’idea di quanto sia precaria, di quanto sia al limite la vita di queste persone, e di quanto sia effimero l’aiuto che viene loro offerto. Ho ascoltato molte storie di queste persone, e spesso ho constatato che questa è l’unica cosa che posso fare concretamente per loro.

CREDO CHE QUESTA SIA LA VERA POVERTÀ’

Nell’ultimo periodo due delle persone stabilmente accolte nella Capanna di Betlemme di Bucarest hanno deciso di tornare alla vita di strada dopo ormai diversi mesi che vivevano con noi. Sembravano avere trovato stabilità, avere trovato la loro dimensione all’interno della vita della casa, con le diverse mansioni da svolgere, dalla cucina alla pulizia. Si è instaurata con loro anche una bella relazione di amicizia e si sono dimostrati più volte possibilisti di fronte alle proposte del responsabile del progetto di dare continuità alla loro vita in casa, di aspirare a qualcosa di diverso, a qualcosa di buono e di bello per la loro vita. Sorridevano, scherzavano, hanno sempre parlato volentieri e condiviso molte delle loro esperienze passate con me, si è creata una fiducia. Eppure hanno deciso di tornare a bere, o a drogarsi, dopo mesi di lontananza da sostanze.

Mesi di permanenza presso la Capanna di Betlemme, per queste due persone, non sono bastati a dare loro gli strumenti per capire che esiste una vita migliore. Forse in futuro si ricorderanno di questo precedente di vita ‘normale’ nella loro esperienza, forse no. Queste sono le due persone che hanno avuto la più lunga permanenza in casa da quando io ho preso parte al Servizio Civile. Di fatto sono state le due persone che hanno avuto la volontà, la perseveranza più grande, tra tutte quelle che abbiamo incontrato. Sono solo due, su migliaia di persone senza fissa dimora, solo a Bucarest sono 5000, secondo le statistiche raccolte dalla associazione rumena Samusocial, che si occupa di assistenza ai senza fissa dimora.

Credo che questa sia la vera povertà. Non è tanto la mancanza di beni materiali, di cibo, di soldi, di una dimora. Credo che la povertà più grande sia la mancanza di una speranza in una vita migliore, la mancanza degli strumenti per capire che ci può essere, che ci deve essere una prospettiva migliore, una possibilità di realizzare qualcosa di diverso da quanto fatto fino al momento corrente.

Ho riportato questo esempio come difficoltà oggettiva, per cercare di trasmettere l’idea di staticità di questo contesto di povertà. Ciò che emerge è una situazione inchiodata, che si ripete da anni, da decenni uguale a sé stessa e non accenna a cambiare per cause complesse, ma che sono principalmente correlate ad una assenza o disinteresse dello stato rumeno a questo tipo di problemi e ad una conseguente mancanza di infrastrutture e servizi atti all’accoglienza, all’ascolto, all’integrazione.

Questa staticità, questa inerzia al cambiamento determina un fatto incontrovertibile. Nell’ambito di questo progetto non sono visibili risultati tangibili o quantificabili di miglioramento nella vita di alcun soggetto senza fissa dimora che è stato per un qualche tempo un destinatario del progetto stesso.

UN ASPETTO PIÙ’ SOGGETTIVO

In secondo luogo, riporto un aspetto più soggettivo, più personale il quale è anch’esso causa della difficoltà di questa esperienza. Sin dai primi mesi ho faticato molto ad abituarmi a un nuovo modo di alimentarmi, a nuovi orari a nuovi ritmi ad un utilizzo diverso delle energie e ad integrare tutto questo con un riposo adeguato. Non entro nel merito delle cause di questa personale fatica, ma sommando quest’ultima alla modalità di lavoro adottata nell’ambito di questo progetto, ne risulta una stanchezza fisica e mentale che, ‘a ondate’, prende il sopravvento.

Combinando queste due tipologie di cause, oggettive e soggettive, il risultato è la genesi di un sentimento di frustrazione e una mancanza di motivazione che in alcuni frangenti hanno avuto la meglio su di me.

DARE CONTINUITÀ’ A QUESTA “PACE TORMENTATA”

Tuttavia, gli aspetti positivi di tutto questo sono molteplici. Sto traendo molti insegnamenti da questa esperienza. Anzitutto sto imparando quanto sia importante un equilibrio psico-fisico e una corretta gestione delle energie per affrontare le giornate di lavoro in maniera più serena e ottimistica. Sto dando sfogo alle domande che emergono nella mia coscienza trovando più momenti di riflessione, di meditazione, di preghiera e di silenzio. Mi sto abituando a leggere a informarmi molto, per cercare di risalire il più possibile alle cause dei problemi attualmente presenti nel mondo. Ho trovato il coraggio di cercare aiuto, a livello psicologico, per una maggiore comprensione della mia storia e delle mie fragilità e sto concretamente lavorando su me stesso da questo punto di vista.

Questi ultimi sono solo alcuni dei frutti che questa esperienza di Servizio Civile Universale mi sta dando. Se guardo dentro di me e vado oltre alla frustrazione, oltre alla stanchezza, oltre alle parole che dico e alle azioni che compio tutti i giorni, oltre alle ferite del passato, oltre alle paure trovo che in fondo mi sento bene e mi sento a mio agio in mezzo a queste persone, mi sento ‘a casa’.

È difficile per me trovare altre parole per descrivere questo sentimento di pace che provo quando ho fatto anche solo un pezzo di strada, breve o lungo che sia, con qualcuno dei destinatari di questo progetto. Questo genera per me importanti domande sui risvolti che questa esperienza potrà avere sulla mia vita, quali scelte concrete compiere per dare continuità a questa ‘pace tormentata’.

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