Sono passati quasi cinque mesi dal mio arrivo a Lago Agrio, cittadina immersa nella meravigliosa Amazzonia ecuadoriana. Per raccontarvi un po’ ciò che faccio o vedo qui ho deciso di parlarvi di un evento a cui ho partecipato, Vestidas para la Resistencia (Vestite per la Resistenza), promosso dalla Federación de Mujeres de Sucumbios (FMS), l’organizzazione partner FOCSIV in cui svolgo il mio servizio civile. Obiettivo dell’iniziativa è stato dare visibilità alle persone transgender, così come a tutta la comunità LGBTQI+, sensibilizzando sulle forme di discriminazione che vive costantemente questa fetta di popolazione marginalizzata.
L’evento era composto da una mostra fotografica e da una sfilata di moda, in cui persone trans e operatrici della FMS hanno portato in passerella alcuni abiti disegnati e cuciti a mano rigorosamente da loro stessə. Con l’intento di rivendicare i loro diritti e le loro lotte, hanno creato uno spazio per mostrarsi e dar voce a tutte le persone trans che non ci sono più, uccise da un sistema patriarcale, maschilista, sessista, violento e transfobico che non accetta la diversità e la libertà come valori intrinsechi dell’essere umano. Basti pensare che solo nel 2021 in Ecuador sono stati registrati n. 197 femminicidi e n. 8 transfemminicidi (i dati sono aggiornati al 25 novembre 2021 e sono quelli conosciuti, probabilmente nella realtà sono molti di più).
Di base, potrei tranquillamente descrivere questo evento così, con poche lapidarie parole. Invece, mentre ero là che aiutavo a montare la passerella, a sistemare le luci, mentre sedevo ad assistere alla sfilata di appena un’ora, intervallata da video e musica, sentivo che l’unica cosa giusta da fare era provare a dire di più, cercando di mettere su carta la potenza, la forza rivoluzionaria e l’emozione provata. Soprattutto, vorrei farvi comprendere che Vestidas para la Resistencia non è un singolo evento, ma un processo cresciuto nel tempo, un lavoro costante di costruzione e decostruzione, di accoglienza e di resistenza, nel quale vestirsi e mettersi a nudo continuamente.
Si tratta di un evento che non si è svolto in un posto qualsiasi del mondo, magari in Occidente – dove comunque questo tipo di rivendicazioni sono tutt’altro che scontate – ma in una piccola cittadina di frontiera in America Latina. Lago Agrio, infatti, è una città giovane e remota, nata dallo sfruttamento del petrolio, che da troppo tempo sporca di nero quel meraviglioso verde che ne sarebbe il protagonista. Può essere considerata senza mezzi termini una città brutta, povera, senza stimoli culturali – non una biblioteca, un cinema, un teatro – niente che possa far pensare a quanto è bello e grande il mondo. Qui il caldo è soffocante, le condizioni di vita della popolazione sono precarie e tuttavia molte persone migranti ci arrivano, scappando dalla fame e dalla guerriglia, per cercare di dare un senso alla propria esistenza. Non a caso, questa città si trova in una posizione strategica, al confine con la Colombia, che severa le sorride alle spalle. Per molte ragioni, questo è un posto in cui la violenza si spreca nelle più brutali tra le sue manifestazioni – come ad esempio l’incesto – ma che, allo stesso tempo, si colora delle mille identità che le culture diverse qui presenti portano con sé. Oltre alle persone migranti, infatti, sono molte soprattutto le comunità indigene che ancora sopravvivono, resistendo e cercando di tramandare le proprie tradizioni.
Non ho voluto descrivere Lago Agrio per caso ma per invitarvi, a questo punto del racconto, a fare un gioco: immaginate di vivere in questa città, di essere una persona indigena o una persona migrante e di sentire di non riconoscervi nel genere o nel sesso che vi è stato attribuito alla nascita. Immaginate di essere poverə, sex worker, di avere vissuto violenze di ogni tipo da tutta la vita da parte della vostra famiglia, dal vostro partner, dalla polizia e dalle istituzioni. Se per qualche istante riuscite a immaginare tutto questo, chiedetevi: cosa vi spinge a creare e indossare un abito, sfoggiando il migliore dei vostri sorrisi? Cosa vi spinge a mostrare il vostro corpo, dalla società tanto umiliato e ipersessualizzato, per urlare quanto siete fierə e orgogliosə di essere ciò che siete? Si potrebbe pensare che sia il coraggio a spingerci, oppure la consapevolezza di non avere più nulla da perdere. Personalmente non ho la risposta e non pretendo di averla. Forse si tratta solo di scoprire che la propria voce è più forte della violenza sistemica in cui siamo immersi. Forse è pura lotta e resistenza, come ci suggerisce il nome stesso dell’evento.
Quello che so è che un gruppo meraviglioso di donne trans ha raccontato la propria storia attraverso sguardi, parole e abiti che hanno rappresentato in modo eccezionale la loro complessità. Ci hanno chiesto di guardarle, di ascoltarle, di stare lì in silenzio con la loro forza e il loro dolore. E non l’hanno fatto da solə ma supportate dalla FMS, che ha saputo cogliere le loro istanze dimostrando vera inclusione, fatto per niente scontato soprattutto in un contesto come questo. La FMS, infatti, é un’organizzazione femminista nata dal basso e che, come tante altre realtà sociali, è cresciuta grazie alla Chiesa e al mondo cattolico. Si tratta di un’organizzazione di donne – tante, tantissime donne – la maggioranza delle quali proviene da contesti poveri, violenti e svantaggiati, sicuramente lontani da quello in cui ho avuto la fortuna di crescere e formarmi io, privilegiato, culturalmente vivace e accademico. E’ un’organizzazione che tutti i giorni convive e si batte per i diritti delle donne, delle adolescenti e delle bambine vittime di ogni tipo di violenza, che ha il coraggio di avvolgersi un mantello verde addosso e gridare al proprio Stato la necessità di una legge che garantisca l’aborto sicuro in caso di stupro. Oltre a questo, la FMS è stata in grado di creare in poco più di un anno uno spazio libero, sicuro, accogliente e rispettoso della comunità LGBTQI+, una tra le più marginalizzate e in pericolo. E’ stata capace di chiedersi in che modo poter contribuire e provare a rispondere al loro bisogno di mostrarsi come donne trans, dando loro la dovuta visibilità, senza però rendere l’evento una banale esposizione di immagini, abiti e corpi. Ha saputo domandarsi in prima persona cosa significasse “vestirsi” di una lotta, di un’idea, di un modo di essere per presentarsi al mondo. Ovviamente si tratta di un’organizzazione con alcuni limiti, ma non si può negare che abbia avuto l’umiltà e la forza di guardarsi dentro, di riconoscersi nell’altro, nel guardare il mondo che cambia e nel provare a cambiare con esso, sfidando le norme patriarcali stabilite, facendo dell’osservazione reciproca un luogo di accoglienza.
Davanti a tutto questo io mi sono sentita fortunata. Stare in mezzo a queste persone, in questo luogo del mondo, mi ha fatto capire forse meglio, non del tutto, che aveva ragione chi diceva che ciò che è “personale” è “politico”. Ho capito che a volte resistere è l’unico modo che si ha per esistere ed è per questo che bisogna lottare più forte e insieme. Ho capito anche che nei posti più remoti e lontani c’è chi, con la propria vita, scrive la storia e scombina le carte. In altre parole, ho sentito con il cuore i diversi e sorprendenti significati dei cammini di rinascita che definiscono le vite di alcune persone e ho ricordato con ottimismo i versi di Fabrizio De Andrè “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”, pensando che quando si tocca il fondo è proprio dal fondo che si trovano le risorse per ricominciare.
E così, senza avere la pretesa che leggendo questo articolo possiate sentire ciò che ho provato io, mi auguro che queste parole possano farvi riflettere rispetto a quanto abbiamo da imparare da tutto ciò che è sconosciuto, diverso. Da tutto ciò che è Altro da noi.
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