Pensate ad un Cile anni ‘70 e ad una bambina che viene abbandonata accanto alla porta di un orfanotrofio. Pensate che da quel momento quella bambina non troverà né una casa né una famiglia fino a che, molti anni dopo, viene trovata incinta per strada avendo perso il senso della realtà. Pensate che quel senso della realtà lo ha perso a causa delle ripetute torture e abusi ricevuti dentro i vari orfanotrofi che l’hanno vista crescere. Non si recupererà più, riuscirà a mantenere un equilibrio solo grazie all’aiuto dei farmaci.
La bambina diventa adulta, ha un compagno, anche lui abusatore. Rimane incinta e un giorno scappa mentre lui si sta facendo la doccia. Decide di abortire abusivamente ma viene trovata per strada in preda a una crisi e viene segnalata ai servizi sociali. Attraverso questo canale arriva poi in un centro protetto per donne e viene seguita durante la sua gravidanza. Man mano che i mesi passano lei si convince sempre più che vuole tenere quel bèbè, una femmina, le dicono. Lo vuole ma non può tenerlo da sola, non ne sarebbe in grado, non può prendersi cura di un piccolo essere vivente. Ecco che i servizi sociali le propongono un’alternativa: puoi restare con la piccola e vivere in un luogo protetto, accogliente, affettuoso… una casa famiglia.
La donna arriva con la sua piccola in una casa famiglia della Comunità, ancora non assume farmaci e inizia ad avere disturbi paranoici riguardo alla madre e al padre di casa famiglia. Più la bimba cresce e più sua mamma biologica le dice che non deve fidarsi di loro, non deve chiamarli ‘mami e papi’, loro sono cattivi, prima o poi scapperanno da lì per essere libere… La piccola, Carolina, cresce tra due opposti vortici: il mondo della mamma biologica e quello dei genitori che la hanno accolta e dei tanti altri fratelli, accolti come lei. Era difficile capire come mediare, cresce quindi come una bambina silenziosa e molto intimorita, soprattutto dalla figura del padre di accoglienza. La presenza di tanti altri bambini la tranquillizza però, le dà la serenità di quei momenti di gioco di cui tutti i bambini hanno diritto.
La mamma biologica nel frattempo accetta di incontrare uno psichiatra, viene diagnosticata con bipolarismo e inizia a medicarsi. La sua situazione col tempo si stabilizza, impara a vivere e convivere dentro i caldi muri di casa famiglia. Non impara mai però ad educare la sua piccola, ma a questo per fortuna ci pensano i ‘genitori di cuore’.
“Sono cresciuta tra due mamme, ci è voluto tanto tempo per capire che ruoli avessero per me, ma adesso che ho vent’anni capisco che entrambe sono state essenziali nella mia vita. L’una perché mi ha educata, perché mi ha aiutata a marcare quelle linee che adesso mi definiscono; l’altra perché è per me un ricordo giornaliero di come dalla marginalità si possa arrivare ad un cambiamento, per quanto sia duro e faticoso.” Carolina certe volte, nei momenti di crisi della mamma biologica, sente che quest’ultima si trasforma “quasi in figlia mia, più che mamma”. Nonostante ciò, non smette mai di credere nel potere dell’evoluzione e del cambiamento e che “non sarei mai arrivata fino a qui senza delle basi solide come quelle che ti dà una famiglia e il suo affetto”. Senza la casa famiglia, sarebbe rimasta nel circuito degli orfanotrofi e il circolo della marginalità e della sofferenza forse non sarebbe mai cambiato. Carolina è invece adesso una ragazza solare, ironica, molto vitale. Dipinge, è studentessa di storia all’Università e vuole scrivere la tesi sugli orfanotrofi e sul vuoto storico che si è creato in Cile riguardo alle tante storie di bambini e bambine che hanno sofferto tantissimo all’interno di quei posti. Lavora nel frattempo, vuole viaggiare il mondo e ogni tanto parte col suo zaino e la sua tenda per godersi i fine settimana in natura.
Questa è una storia di cambiamento. Di come, attraverso l’accoglienza in famiglia, si possano trasformare storie di marginalità.
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