Caschi Bianchi Gibuti

Giorno dopo giorno

Sara ci racconta la sua esperienza in Gibuti con Caritas Italiana: un progetto di inclusione e sostegno per bambini di strada e in stato di vulnerabilità che, giorno dopo giorno, si è rivelato carico di emozioni e legami inaspettati

Scritto da Sara Jouhari, Casco Bianco in Servizio Civile con Caritas Italiana a Gibuti

“In Gibuti ?!”
“Sì in Gibuti, mamma”
“E dove sta?”
“Hmm, prendiamo la cartina geografica vah”

La mia partenza per il Gibuti è stata colta con stupore da tutte le persone vicine a me.

D’altronde i miei programmi erano altri. Nata in Marocco, cresciuta in Italia, studi in cooperazione, avevo progettato a lungo di tornare nella mia terra natia. Sembrava una scelta naturale, consequenziale al mio percorso di studi e di vita. Ed invece, leggendo il bando, valutando le innumerevoli possibilità che il SCU poteva darmi ho deciso, spinta dalla mia volontà di conoscere altre culture, altre lingue, altri contesti, di fare domanda per il progetto in Gibuti con la Caritas Italiana, scelta questa venuta con naturalezza proprio perché già conoscevo i valori che mi accumunavano con l’organizzazione a capo del progetto.

Dall’invio della domanda, il colloquio fino all’attesa dei risultati, ho visto video su video, letto articoli e cercato di capire dove sarei andata da lì a pochi mesi.

Arrivo. Sole, bouganville, aria di mare e caldo, tanto caldo!

I primi giorni mi sono dedicata ad osservare le persone del luogo, a cercare un modo per comunicare ed interagire con loro, utilizzando la mia vicinanza linguistica, ovvero l’arabo ed il francese, e la mia vicinanza di fede, essendo musulmana in un paese musulmano: elementi questi che mi hanno permesso di creare connessioni più profonde con le persone che ho conosciuto.  Soprattutto, i primi giorni, li ho dedicati a conoscere i bambini del centro diurno di accoglienza, gestito da Caritas Gibuti; centro che accoglie e accudisce tutti i giorni le bambine e i bambini di strada, che sin dalle prime luci del giorno, si poggiano sui muri del centro in attesa dell’apertura delle porte, e a volte dormono davanti a quelle stesse porte per sentirsi protetti dai pericoli della notte.

Con i bambini è bastato un sorriso, imparare qualche parola della loro lingua e insegnare loro qualche parola in italiano ed è subito nato un rapporto che dalla semplice amicizia, si è trasformato con molti di loro in un rapporto fraterno e a volte materno.

Fraterno perché sin da subito i bambini ci hanno dato soprannomi simpatici e ci hanno reso partecipi delle loro vite; materno perché piano piano in tutti noi caschi bianchi è nato un senso di protezione verso di loro e spesso anche di preoccupazione quando qualcuno si ammala o non si presenta per giorni presso il centro. Mai avrei immaginato di poter provare queste emozioni, o di poter essere un punto di appoggio e di ascolto, per dei bambini con cui la comunicazione è fatta da poche parole ricompensate da gesti, sorrisi, a volte disegni e regali inaspettati, fatti con mezzi di fortuna.

Oltre il centro diurno di Caritas, come caschi bianchi siamo impegnati anche nei centri LEC “Lire, Ècrire, Compter” dedicati all’inclusione delle bambine e bambini vulnerabili e meno abbienti, che non sono riusciti ad accedere ad altre strutture scolastiche, e ai bambini con disabilità. Qua abbiamo l’opportunità di vedere un’altra parte del Gibuti, conoscere altre storie legati ai vari quartieri periferici e cogliere le diverse tradizioni e culture presenti nel paese.

Oramai mancano pochi mesi alla fine del progetto, ma ogni giorno è un nuovo giorno carico di emozioni. Del resto, non sono queste ultime a spingerci ad impegnarci per gli altri?

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