Siamo arrivati in Ecuador da una settimana appena, e già si parte all’avventura per il cantone più distante da Esmeraldas, nonché uno dei più celebri per la sua pericolosa contiguità con la Colombia: il cantone di San Lorenzo. Io e il mio compagno di Servizio Civile non abbiamo ancora idea di dove ci troviamo e delle sfide con cui dovremo confrontarci nei mesi a seguire. Siamo entusiasti e spaesati.
Ci alziamo all’alba e Jenny, la coordinatrice tecnica di progetto, che è un’altra fisioterapista, ci passa a prendere con il fuoristrada dell’associazione. Ci spiega che andiamo a fare delle valutazioni di una serie di pazienti amputati che vivono a San Lorenzo affinché una Fundacion di Quito decida se siano idonei o meno a ricevere una protesi. Dopo qualche ora di viaggio, giungiamo a questo Centro de Salud, un ambulatorio territoriale, che ai nostri occhi europei non appare affatto come un luogo di sanità pubblica.
Quel giorno, abbiamo ascoltato tante storie drammatiche e visto tante ferite, fisiche ed interiori, rimarginatesi un po’ come viene. Ma una in particolare mi ha fatto male e mi ha fatto riflettere, e vorrei raccontarla.
Dopo una serie di uomini, entra nella nostra saletta Silvia, una ragazza di 27 anni, seguita da due bimbi. Si inizia con le solite domande sui dati personali, e poi si passa a chiedere di ciò che le è successo. Più volte ripete che è stato un “incidente”. E quando Jenny le chiede specificatamente di che si tratta, inizia a raccontare. Ci dice che è stato suo fratello. Che stava litigando con sua sorella e che quando lui si era avventato su di lei con un machete, lei si era messa in mezzo per difenderla. Le aveva tagliato quasi tutto il braccio. Di lì in poi era iniziato un calvario di attese, ricoveri, trasferimenti in ospedali lontani, e dopo alcuni giorni (e, sottolineo: giorni) di indicibile dolore e sofferenza, la decisione di amputare. Tutto questo era successo circa dieci anni prima, e adesso aveva una famiglia, con due bambini indiavolati (che non sono stati fermi un secondo durante tutta la valutazione, giocando a fare la lotta tra loro), e un carico domestico ed educativo quasi interamente sulle sue spalle, secondo il modello prevalente qui in Ecuador.
Si percepiva che fosse un ricordo lontano e completamente superato, ma non riuscivo a credere che non avesse versato neanche una lacrima durante il suo racconto, e che tantomeno avesse mostrato dei segni di sofferenza chiari, né a livello verbale né a livello mimico. La spiegazione che mi sono data è stata che i segni di sofferenza li avesse dentro, in fondo ai suoi occhi bruni e profondi, in uno sguardo che aveva perso un po’ di vita. E che non si manifestassero anche perché la sua è solo un’altra storia terribile delle tante nascoste in ogni casa.
Quella era una storia di Amore e di Violenza, due elementi che qui sono così forti e radicati nella società che appare quasi contraddittorio che convivano e si mescolino all’interno delle persone. I legami familiari sono strettissimi, è comune che famiglie anche molto numerose vivano nella stessa casa, o nello stesso barrio a pochi passi di distanza, e passino tutte le giornate insieme: le donne sedute fuori, a cucinare, a fare i lavori di casa, e i mille cuginetti a giocare insieme per strada, condividendo. Eppure, in queste stesse famiglie, quando si indaga sulle origini di una disabilità, emergono episodi di abusi tra parenti, spesso ai danni delle donne: è stato il cugino, lo zio, il padre. La gravidanza è stata nascosta nella vergogna fino all’evidenza, non adeguatamente controllata dal punto di vista medico. E quando qualcosa va storto, è troppo tardi. Peggio è quando la vittima è lei stessa portatrice di disabilità, e spesso il figlio che nascerà avrà lo stesso destino. Qui la violenza è normalizzata, e talvolta viene riferita come se fosse quasi banale.
E’ complesso comprendere i fattori che contribuiscono a una dinamica del genere, ci vuole molto tempo per conoscere la mentalità locale, e le sue ragioni. Quanto la miseria, intesa come deprivazione materiale e morale, non lasci scampo. E ancora di più lo è accettarlo, per poter fare il proprio lavoro. E’ davvero una sfida quotidiana, ma è meraviglioso sentirsi utili anche solo in minima parte perché lo sviluppo di una società abbia una sfumatura leggermente diversa da quella che avrebbe senza il proprio apporto.
Silvia riceverà una protesi, e la sua qualità di vita avrà un incremento notevole, da molti punti di vista. Noi siamo qui per questo e cerchiamo di farlo ogni giorno al massimo delle nostre possibilità, senza giudicare troppo in fretta e senza scoraggiarci. Il Servizio Civile si sta rivelando una opportunità di crescita personale e di confronto coi propri limiti molto più travolgente di quanto ci si possa aspettare.
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