Sono Daniel Di Nola e sono un Casco Bianco. Almeno fino al prossimo giugno. La mia esperienza di servizio civile finora è stata molto diversa da come me l’ero immaginata. Ma andiamo con ordine, perché fare chiarezza in questo periodo incerto è forse l’unico modo per mantenere un equilibrio.
Sono un ragazzo di 26 anni che ha terminato gli studi in Psicopatologia, una magistrale di Psicologia, ed ho sentito che era il momento di dare una svolta. Per questo ho cercato un progetto che mi potesse interessare nel bando del Servizio Civile Universale.
Ho capito che per me era arrivato il momento di sperimentarmi in un contesto diverso da quello in cui sono cresciuto e ho cercato di coniugare questa necessità con la possibilità di accrescere la mia esperienza clinica e di poter offrire un aiuto a chi ne avesse bisogno. Ma soprattutto credo che la motivazione più forte sia quella di conoscermi, conoscendo gli altri.
Dopo essermi candidato per un progetto di servizio civile caschi bianchi a Santiago del Chile, proposto dall’associazione Comunità Papa Giovanni XIII, ho aspettato con ansia l’esito del colloquio per sapere se la mia vita sarebbe cambiata con questa esperienza di un anno fuori. Scopro di non essere stato preso, di poco. Chiaramente deluso perché sentivo di aver investito emotivamente molto in questo progetto mi concentro su situazioni più pressanti ed incombenti come l’esame di stato per abilitarmi. Dopo circa un mese e mezzo ricevo la chiamata che sono subentrato, alcuni ragazzi a causa dell’incertezza visto il Covid avevano rinunciato. Decido di accettare.
Dopo settimane in cui la formazione pre-partenza avveniva tramite lezioni online abbiamo avuto la possibilità per 5 giorni di fare una formazione a San Marino con tutor e ragazzi indirizzati in molte parti del mondo.
È stata un’esperienza molto intensa e arricchente che mi ha dato la possibilità di acquisire nuove conoscenze e tecniche per stare in relazione, ma soprattutto la possibilità di conoscere ragazzi particolarmente stimolanti. Ogni casco bianco che ho conosciuto mi spingeva a considerare punti di vista nuovi su quello che saremmo andati ad affrontare.
Una volta finita la formazione in presenza però piano piano hanno incominciato a sommarsi problemi. Il primo è stata l’incertezza della data della partenza e poiché le frontiere erano chiuse siamo stati bloccati. Ci è stato detto che per meglio adattarci alla vita che avremmo fatto a Santiago e nelle rispettive destinazioni ci avrebbero mandato in delle case famiglie in Italia per due settimane, nel frattempo avremmo dovuto portare avanti le pratiche burocratiche per la partenza.
In realtà io sono finito per varie vicissitudini a Chieti, in Abruzzo. In una struttura chiamata capanna di Betlemme. Questo luogo offre la possibilità a numerose persone con diverse difficoltà di vivere in comunità e di contribuire al benessere reciproco lavorando all’interno della struttura. Gli utenti accolti dalla comunità sono principalmente persone senza tetto, ma ci sono anche giovani donne vittima di tratta con i propri figli, utenti psichiatrici, persone che stanno scontando una pena alternativa al carcere. Una moltitudine di persone con storie di vita diverse ma accomunate dalla necessità di un posto che dia loro riparo e sostentamento.
Inizialmente sono arrivato senza assolutamente sapere cosa avrei potuto o dovuto fare, ma nello spirito della Comunità, dopo avermi fatto vedere la mia stanza, sono subito stato messo al lavoro e con altri utenti e un operatore abbiamo incominciato a darci da fare in magazzino. I lavori da fare erano numerosi e la struttura tutto sommato sembrava una macchina ben oliata. Gli utenti distribuiti in diversi gruppi con compiti specifici avevano degli orari di riposo e orari di lavoro mentre i pasti si consumavano tutti insieme. C’era chi stava in cucina, chi si occupava di pulire, chi di aiutare con la manovalanza. Ognuno aveva qualcosa da fare. Il responsabile, con cui mi sono trovato molto bene, era aiutato nella gestione della struttura da 3-4 operatori e da qualche ragazzo in servizio civile che venivano a turno. Io che vivevo lì, ho potuto col tempo conoscere a fondo i ragazzi di Chieti. Dico ragazzi perché anche se l’età variava dai 30 ai 70, per il ritmo a cui andavano sembravano dei ventenni! Mi sono affezionato a questa grande famiglia che nonostante i vari momenti disfunzionali e di litigi, trovava sempre il modo di venirsi e venirti incontro. Un luogo dove meno ti aspetti la gentilezza e la generosità, ma dove ne trovi esempi profondi. Come ad esempio un ragazzo che viene da un passato in strada di criminalità e si è preso a cuore un signore straniero in sedia a rotelle, ed ora lo aiuta a lavarsi e lo accompagna nei momenti di difficoltà.
Comunque il tempo sembrava scorrere ma la mia mente purtroppo era presa dallo sconforto nel sapere tutte le difficoltà che si incontravano nello sbloccare la partenza.
Ad un certo punto ci fanno tornare a casa, poiché sembra che non ci sia più nulla da fare e che il progetto debba essere congelato. Ed è proprio in quel momento che arriva una circolare del Dipartimento che riapre le speranze e le frontiere, e ci garantisce la partenza. Quest’ultime settimane non sono state facili, ma ormai ci manca poco e non vedo l’ora di affrontare questa nuova esperienza, mantengo le aspettative basse e la voglia di aiutare alta. Speriamo!
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