In famiglia ci si vuole bene, ci si ascolta ma certe volte ci si scontra anche e si cerca di discutere per trovare delle soluzioni che vadano bene per tutti. Ecco cosa è successo in questi mesi di Servizio Civile, prima in formazione, poi in casa famiglia e adesso in attesa della partenza. Ma partiamo dall’inizio…
Ho partecipato per la prima volta al bando di Servizio Civile quando avevo 20 anni, adesso ne ho 26. Un tempo sarei partita forse più spensierata, senza nessuna paura. Adesso invece di paure ne ho e penso di star partendo un po’ anche per affrontarle. Queste paure si possono riassumere in una domanda che mi pongo spesso: il mio spirito di adattamento sarà ancora pronto e forte per affrontare un’esperienza così totalizzante? Bhè, mettiamolo alla prova!
Se da un lato questa è la mia debolezza, la forza la prendo dalla motivazione che ho nel partecipare al progetto. Devo dire che anche questa è stata messa alla prova, perché ho dovuto cambiare progetto ben due volte: inizialmente ho partecipato al bando selezionando Haiti, senza troppi indugi, perché è un paese che ho ripetutamente studiato all’Università e il progetto che offriva la Comunità Papa Giovanni XXIII là era proprio quello che cercavo. A causa dell’uccisione del presidente Moise e il successivo terremoto nel sud del paese, il Ministero ha ritenuto Haiti un Paese troppo insicuro e il progetto è stato cancellato. Adesso gli stessi missionari là da anni si sposteranno in Repubblica Dominicana e sono molto dispiaciuta per la loro condizione e quella dell’intero paese.
La fase successiva mi ha vista davanti a una scelta: Zambia o Cile, Ndola o Valdivia? Dopo lunghe riflessioni avevo deciso di partire per lo Zambia. Il giorno successivo mi hanno chiamato per dirmi che era molto difficoltoso per i responsabili a Ndola riuscire ad inserirmi nel progetto.
Ed eccomi arrivata quindi all’ultima ma non meno importante tappa: Valdivia, nel centro-sud del Cile. Saremo in 3 volontari, lavoreremo con gli immigrati haitiani, con le minoranze Mapuche e vivremo in casa famiglia.
Ecco, penso che ogni paura e dubbio iniziale verrà sciolto attraverso questo servizio che offriremo alla popolazione, perché in ogni contesto completamente nuovo ognuno di noi si sente spaesato, ma avere una missione aiuterà tantissimo a dare un senso ad ogni mio giorno in Cile.
Cosa mi aspetto? Per ora non molto, mi basta pensare di riuscire a partire con solo due zaini e non troppo ingombranti, spogliarmi di ogni superfluo e iniziare una nuova missione per me e per gli altri.
Questi mesi in Italia passati in costante attesa di notizie da parte del Ministero, del Dipartimento e della Comunità Papa Giovanni XXIII, benché duri, mi sono serviti per capire cosa vuol dire accoglienza, aprire le porte della propria casa a persone che hanno bisogno non solo di casa ma di amore, famiglia, sedersi insieme ad un tavolo e sentirsi ascoltato. Per la prima volta ho vissuto in una casa famiglia e là ho conosciuto persone che hanno lasciato un segno in breve tempo. Persone come Sofia e Gabriel, che con le loro disabilità riescono ad avere un potere fortissimo: la capacità di restituire la propria immagine e anima a chi hanno di fronte, come uno specchio. In un abbraccio o un sorriso di Sofia ho scoperto la dolcezza dei piccoli gesti e l’importanza di vivere la vita anche solo per la felicità provata nel leccare la tazzina del caffè! Nei suoi bisogni ho riscoperto la mia capacità di dare, che certo ha dei limiti, ma che so di poter mettere sempre in discussione e spingere oltre. Nel buon umore di Gabriel e nel suo cantare a squarcia gola in macchina rispecchio i miei ideali di vita: affrontare tutto col sorriso e godersi ogni attimo!
Il primo giorno in casa famiglia ho annotato sul mio quadernino: “Katia è accogliente, Katia è mamma”. Ed è così che mi sono sentita anche io un po’ in famiglia anche se per poco. Forse mi aspetto di trovare questo anche all’estero e allo stesso tempo di essere capace di far sentire gli altri in famiglia quando mi stanno accanto.
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