Albania Caschi Bianchi

A Drizë la magia di un incontro con il popolo Rom

Uno sguardo alla vita di un popolo antico e sconosciuto, il popolo Rom incontrato a Drizë, per scavalcare etichette e pregiudizi e arrivare alle persone

Scritto da Giulia Chessa, Casco Bianco in servizio civile con ENGIM-FOCSIV a Drizë

Ho pensato molto a cosa e come scrivere questa testimonianza perché sentivo, e sento, la responsabilità di poter dare voce, tramite le mie parole, alle persone rom che ho conosciuto durante questo anno in Albania e a cui, invece, è stato detto troppo spesso di tacere, perché quello che hanno da dire non interessa a nessuno e, in ogni caso, è sufficiente l’etichetta che gli abbiamo affibbiato, “Zingari”, per descrivere tutto quello che sono. Alla fine ho pensato che la cosa migliore fosse far parlare loro, raccontare le loro storie e il luogo all’interno del quale queste sono scritte: Drizë.

Drizë è uno dei villaggi rom della città di Fier, è abitato unicamente da rom e il modo più veloce per raggiungerlo è percorrere a piedi una ferrovia sgangherata, non più funzionante, che dalla città porta alle case del villaggio. Ad accoglierti, all’ingresso del villaggio, trovi Kujtim, un bambino che indossa sempre un cappello di lana, non importa che sia estate o inverno, e il suo cane pazzo. Poi una serie di case, dalle forme e dimensioni più svariate: si passa dalla villa con il cancello d’ingresso in stile Partenone e totale assenza di sobrietà, alle baracche di lamiera, a pochi metri di distanza. Ai lati della strada molta spazzatura, ma anche giardini curati dove tacchini grassi, ignari del loro triste destino, (finiranno presto negli stomaci degli albanesi) prendono il sole. Tutto intorno bambini minuscoli che portano al guinzaglio pecore giganti, bambini che giocano con la fionda, bambini che vanno in bicicletta, insomma, molti bambini, ma anche adulti che giocano a biliardo nel bar del villaggio, donne sedute su stuoie che si raccontano chissà quale storia. Sullo sfondo l’Azotiku, la fabbrica dove, ai tempi del comunismo, veniva prodotto l’azoto e di cui oggi rimangono solo imponenti carcasse di cemento.

È qui che si intrecciano le vicende di Boika e Samuel, Rita e Rovena.

Boika e Samuel sono due gemellini di 6 anni, appena li vedi li ami. Non sono identici ma indossano zaini e vestiti identici. Nonostante siano dei minuscoli esseri umani hanno già viaggiato molto, sono albanesi, ma hanno anche vissuto in Francia e Germania, perché sono rom e quindi nomadi e ai nomadi piace molto viaggiare, è nella loro natura. Ah no? No! La prima cosa che ho imparato da Boika e Samuel è che i rom non sono nomadi, questa è una gigantesca balla. I rom si spostano perché costretti a farlo, si chiama mobilità coatta. Si spostano per cercare condizioni migliori, un’istruzione migliore per i figli, un welfare migliore, come nel caso della famiglia di Boika e Samuel, o perché, come è accaduto nel passato, e come ancora troppo spesso succede nel presente, sono cacciati dalle terre in cui vivono o gli è reso impossibile rimanerci. Insomma, ai rom, proprio come a noi, piace avere una casa, dei vicini (si spera simpatici), e un posto dove mettere radici.

Boika e Samuel, ogni giorno, prendono le loro cartelle identiche e vanno a scuola. In classe, la loro maestra gli insegna l’albanese, la matematica e la loro lingua nativa, il romanes. Ah no? No! I rom hanno una lingua, proprio come noi, una lingua, non un dialetto, appartenente al ceppo indoeuropeo ma completamente diversa da qualsiasi altra lingua parlata in Europa. All’interno del villaggio si parla romanes, i bambini, prima di iniziare la scuola, non sanno l’albanese perché, naturalmente, in famiglia si parla romanes. Purtroppo il romanes non è insegnato all’interno delle scuole e, anzi, i bambini sono rimproverati se lo parlano fra di loro. E in Italia accade lo stesso, anzi peggio. I rom infatti non sono riconosciuti come minoranza linguistica (storica), nonostante abbiano tutte le ragioni per esserlo, e quindi la loro lingua non è insegnata loro nelle scuole, a differenza di quello che accade ai bambini occitani, arbërësh, ladini e a tutti gli altri bambini che appartengono a minoranze riconosciute dalla nostra nazione. Privare un popolo della propria lingua significa alienarlo culturalmente rispetto ad un modello dominante, fargli perdere l’identità, la storia, la memoria collettiva, renderlo vulnerabile.

Poi c’è Rita, donna di 60 anni o forse 70, impossibile capirlo dal volto consumato dal sole e da una vita dura. Rita la vedo ogni mattina, sotto casa mia, che chiede l’elemosina, perché si sa, è questo che fanno i rom, rubano e chiedono l’elemosina. Ah no? No! È invece intenta a raccogliere la plastica dai cassonetti dell’immondizia che poi rivenderà per guadagnare qualche lekë (la moneta albanese). La prima cosa che fa quando mi vede è raccomandarmi al suo Dio, Allah, e augurarmi una vita felice. Per tutto il resto della giornata va di cassonetto in cassonetto a raccogliere quanta più plastica possibile, ammucchiarla sul suo carretto scassato e a benedire chissà quante altre persone. E Rita non è l’eccezione, quasi tutti nel villaggio lavorano e chi non lavora si dispera di non farlo, proprio come noi. I rom di Drizë lavorano in gran parte al “tregu”: il mercato di vestiti usati di Fier, uno dei luoghi più affollati della città, dove rom e non rom vanno a fare acquisti. Chi non lavora al mercato, raccoglie la plastica, come Rita, o fa il musicista, come Imbro (che fa milioni di visualizzazioni su YouTube e di cui io custodisco gelosamente un autografo), o fa la sarta, come Rovena.

Rovena è un’altra delle donne di Drizë, madre di Bujar, divorziata e unica donna della famiglia composta, oltre che da lei e dal figlio, da 2 fratelli malati e dal padre anziano. Spetta a Rovena portare i soldi a casa, e allora si divide fra mille lavoretti e, in sella alla sua motoretta, va di villaggio in villaggio a vendere le lenzuola e i vestiti che intesse. La sua più grande passione, dopo suo figlio, è ballare. Le ho pregato di insegnarmi a muovere i fianchi come fa lei, ma mi ha detto che non ho speranze. Le note delle canzoni che spesso risuonano nel villaggio e che ispirano le danze di Rovena, in un secondo, ti trasportano in Transilvania, perché i rom, si sa, lo dice il nome stesso, vengono dalla Romania. Ah no? No! I rom vengono da ben più lontano e così le loro canzoni. E se li guardi da vicino lo capisci immediatamente perché, nonostante vivano in Albania o in Italia o in Germania da secoli, i loro tratti somatici e il colore della loro carnagione sono testimoni di una storia travagliata e di origini lontane. I rom provengono dal Pakistan. 1500 anni fa popolavano le regioni del nord dell’India. Non sono ancora chiare le ragioni che li portarono ad emigrare, fatto sta che nei secoli successivi attraversarono il Medio Oriente e l’Anatolia e poi raggiunsero l’Europa, nel 1100. È da quasi un millennio che conviviamo con i Rom, i Sinti, i Kale, i Manouches e i Romanichals, perché sì non sono tutti rom, ma a seconda della zona dell’India da cui provengono e da dove si sono insediati nei secoli successivi si differenziano in questi 5 macro gruppi. Un millennio che ci conviviamo ed ancora non sappiamo niente di loro ed il poco che sappiamo è un miscuglio confuso di stereotipi razzisti ed inesattezze. Informatevi! Abbiamo il dovere di farlo. Scoprirete che ad esempio in Italia vivono all’incirca 150.000 rom, che il 50% di loro ha nazionalità italiana perché vive in Italia da secoli ed è probabilmente più italiano di molti di noi e che solo in 12.000 vivono nei, cosiddetti, campi rom. E ancora più cose scoprireste se vi “avvicinaste”, ascoltaste le loro storie. Ognuno di loro porta in dote la conoscenza di un popolo lontano, fatto di storia, tradizione, musica … da cui si può imparare molto ed arricchirsi infinitamente.

L’ultima storia che voglio raccontarvi è la mia. Ad agosto sono partita dall’Italia per il mio anno di servizio civile in Albania, sulle mie spalle uno zaino più pesante di quello che avrebbe dovuto essere. I chili in eccesso erano tutti i pregiudizi sulla comunità rom con cui partivo. Grazie a Samuel, Boika, Rita, Rovena e a tutte le persone di Drizë, mese dopo mese, il mio zaino è diventato più leggero, io sono diventata più leggera e libera.

A giugno, quando rientrerò in Italia, sulle mie spalle ci sarà lo stesso zaino sempre troppo pesante, ma stavolta i chili in più saranno fatti della generosità di Besjana, della bandiera rom che Rovena mi ha intessuto al telaio, di tutti i sorrisi sdentati di Boika, delle 3 o 4 frasi in romanes che ho imparato, degli abbracci di Samuel e di tutte le altre incalcolabili cose che le persone di Drizë mi hanno insegnato e donato.

“Avvicinarsi” è stato bellissimo.

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