“Il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”
Vita in Swahili, lingua africana ufficiale del Kenya, significa guerra. In tutta la sua beffarda ironia, questo accostamento stonato mi ha dato modo di riflettere sui contrasti quotidiani che mi trovo ad affrontare, sulle assurdità e contraddizioni di questa terra. Ma soprattutto mi ha portato a realizzare che veramente qua, in un’anonima periferia di Nairobi, la vita può essere una guerra.
GENESI DI UN CONFLITTO
Esistenze al confine
Perché per la maggior parte delle persone confinate a Kahawa West, nell’estrema periferia della Contea della capitale, alzarsi la mattina significa una nuova battaglia per mettere qualcosa sotto i denti, come per i tanti kibarua, lavoratori a giornata che cercano quotidianamente che il fato li assista. Ma per i più le opportunità lavorative sono un’utopia, l’assistenza sociale da parte dello Stato è del tutto inesistente, lasciando così questi dimenticati a loro stessi, ridotti a calpestare la loro stessa spazzatura, perché un bidone dell’immondizia nemmeno esiste in questa parte di mondo. Tutto questo in un Paese dove il tasso di povertà è in aumento e più della metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà ed è multi-dimensionalmente povera, ovvero carente in almeno tre dei bisogni fondamentali quali l’alimentazione, l’educazione, la salute, l’acqua, la protezione dell’infanzia, l’alloggio e i servizi igienici.
Camminando tra le vie di questa periferia, fatico a vedere soddisfatto anche solo uno di questi bisogni.
In una città dove la frattura sociale ed economica è evidente anche nella suddivisione settoriale dei suoi quartieri, dove ai pochi benestanti fa da contrasto l’incredibile moltitudine di indigenti, vittime di una società e di un certo modello di sviluppo che li ha portati a trovarsi relegati a vivere o in spogli e tristi cubi di cemento o in quelle che ad oggi sono circa quaranta baraccopoli, i cui abitanti superano di gran lunga la metà della popolazione totale di Nairobi. Intrecci di lamiere e ruggine, labirinti di miseria e sciagure. Miscuglio di nauseanti odori di canali di scolo e spazzatura, di viscere animali e alcol.
Costretti a combattere per dare al giorno la dignità di un senso, a lottare contro un destino ostile, cercando disorientati un filo di Arianna, tentando di trovare un pertugio tra le sbarre di questa prigione chiamata vita.
Una realtà che ti rende perdente in partenza. Prigionieri di guerra. Prigionieri della propria vita.
E ciò che più mi colpisce è come troppo spesso questa stanca esistenza sfoci in quella che appare come una desolante rassegnazione, uno sventolio di bandiera bianca a mostrare timidamente che loro ci sono, ma non più disposti a combattere questa vita. Necessità e bisogno che lasciano il passo alla rinuncia, alla resa. Ed è muovendomi tra loro che mi rendo conto di quanto possa risultare faticoso anche combattere una vita, non solo una guerra. E tutto diventa un controsenso, tutto si ribalta e in qualche modo si scontra contro quei buoni propositi e quella bontà che si cela dietro il senso del mio trovarmi qua, guidato dalla mia voglia di dare un contributo positivo in una realtà in affanno, cercando, fiducioso nel valore dello scambio e dell’incontro, di portare, nel limite delle mie possibilità, un po’ di giustizia o un’alternativa, di portare un sorriso a chi l’ha perso da tempo, di lasciare in qualche modo qualcosa di me, spronato dalla mia voglia di scoprire, di imparare e di farmi ponte tra mondi differenti. Ma il terreno su cui poggiarmi, che ho trovato da questa parte, è molto fragile, inospitale e danneggiato.
Fare un piccolo passo verso l’unione di un’umanità troppo frammentata e che qui, a prima vista, mi appare ostile.
Però, vivendo in una Children’s Home, immerso totalmente nella quotidiana condivisione di vita con questi bambini e ragazzi, è facile capire, nonostante gli inciampi e le difficoltà lungo il percorso, che proprio qua sta il punto di partenza, in questi germogli pronti a fiorire, in queste giovani speranze di vita. Tuttavia, voltando appena lo sguardo, un’altra moltitudine di germogli appaiono appassiti prima si sbocciare, rintontiti da esalazioni di colla o di un fazzoletto intriso di kerosene, buttati per strada come carta straccia, che risulta veramente difficile da raccogliere.
Ma nascendo, crescendo e vivendo in questa atroce realtà, in cui troppe esistenze sbiadiscono in sfocate assenze, dove il lumicino della speranza diventa sempre più fioco, anche l’incontro con l’altro rischia di perdere la sua meraviglia, freddo e insignificante. Infastidito da occhi che scrutano il mio passaggio, mi sembra di divenire la raffigurazione del superficiale preconcetto dell’irraggiungibile uomo bianco benestante, che ha tutto fuorché problemi. Quegli occhi disillusi, quei disincantati sguardi, specchio di un’anima assopita. Il mio cammino inciampa in ghigni e grugni. Tutto appare grigio e fosco, la pura e genuina curiosità verso l’altro rischia di cedere ad insulsi pregiudizi e taciute ire. Per un attimo mi sembra di smettere di essere una persona, sono moneta itinerante, mi tramuto in una mera e avida opportunità. Un succulento boccone per gli affamati. Una disumanizzazione relazionale.
E forse anch’io inizialmente, circondato da tante assenze, mi sono sentito un po’ mancare.
Dov’è la vita in tutto questo? È vita questa?
BATTAGLIA IN CAMPO APERTO
Caduti e disertori
E il senso di disperazione mi si rivela sempre più evidente in quelle mattine prima dell’alba in cui mi incammino lungo la stessa buia strada, puntualmente invasa su un lato da distese di spazzatura fumante che rilasciano uno strano e caratteristico odore che sembra voler citare quel celebre “napalm al mattino” della più celebre e oscena delle guerre; aroma che sancisce che una battaglia è appena terminata, e che un’altra sta per cominciare. Perché d’altronde, sempre di guerre stiamo parlando. E quelle mattine, salito sull’autobus, non sempre agevolmente perché anche salire sul bus nelle ore di punta diventa un’animalesca lotta per accaparrarsi gli insufficienti posti disponibili, mi dirigo in città.
Le prime luci dell’alba illuminano la desolante realtà circostante che la notte tentava di occultare. Avvicinandomi al centro fiancheggio una delle tante ‘rotonde della meraviglie’, uno sporco cerchio di terra che amaramente accoglie tramortiti senzatetto sparsi e gettati come coriandoli senza colori. Invece altre volte capita di costeggiare la rotonda in cui sono parcheggiati decine e decine di mkokoteni, tipiche grosse carriole a due ruote spinte quotidianamente da migliaia di persone in giro per la città per il trasporto merci, infaticabili umani da soma; l’altra metà di questa rotonda, una soffice collina di sacchi della spazzatura, diviene un triste punto di raccolta di disperati che posano e riposano su questa dolorosamente morbida distesa, nella quale il più fortunato è riuscito ad accaparrarsi un sacco dell’immondizia un po’ più gonfio e morbido da usare come cuscino.
Alla mia destra il mio occhio ancora assonnato viene ravvivato da un piccolo falò in un cumulo di rifiuti che, prima che i raggi di sole compiano il proprio dovere, scalda un gruppetto di uomini e ragazzi appena risvegliati. Intanto, mentre uno dorme avvitato dentro un copertone, altri, più avanti, utilizzano sgualcite gunie, grossi sacchi per mangime degli animali, come sacchi a pelo. E non è difficile scorgere di tanto in tanto gli uomini di fango, persone di mezza età vestite di stracci laceri, scalzi, spesso con un sacco sulla spalla, grigi e marroni dalla testa ai piedi, come a volersi confondere e mimetizzare con quella terra loro giaciglio, quasi a volersi così nascondere dall’occhio giudicante di quella Terra, che però da tempo non si degna più nemmeno di uno sguardo.
E quando il giorno avanza, e il sole diventa rovente, una manciata di giovane carne stracciata giace gettata all’ombra di un ponte, su un lembo di terra ed erba che separa due corsie della superstrada. Ragazzi consumati, vite esanime. Giovani e giovanissimi che combattono la loro guerra quotidiana, o che forse hanno già deciso di disertare. E questi dimenticati si ritrovano come a doversi innalzare al disopra di una grossa montagna di spazzatura, cercando disperatamente un margine pulito in cui coltivare qualcosa, o semplicemente una boccata d’aria fresca e pulita. Ma nello sporco è facile inciampare o scivolare. E mentre qualche ragazzo di strada dorme sotto un ponte, all’interno di canali di scolo, fosse in cemento che appaiono come trincee, al riparo dalla guerra, nascosti alla vita, viene tentata la fortuna da qualche chokora (lett. rifiuto, pron. ciocorà), come vengono chiamati i bambini e ragazzini di strada ridotti a rovistare tra i cumuli di rifiuti nella speranza di trovare qualcosa di commestibile, qualcosa di rivendibile o una bottiglietta per la colla. E gruppetti di capre brucano la stessa spazzatura. Perché nella terra dei rifiutati anche il rifiuto diviene opportunità.
E questa dannata vita diventa una feroce guerra tra poveri, un disperato urlo di sopravvivenza, di rabbia repressa che può sfociare in una mob justice, la tradizionale consuetudine di “giustizia fai da te” per cui una persona sospettata di furto o rapina viene aggredita e linciata pubblicamente, senza pietà, spesso in modo letale.
Conosciuta nel resto del Continente anche come jungle justice o street justice, questa pratica è l’atroce conseguenza dell’esasperazione di persone ridotte allo stremo che ha perso pressocché totalmente la fiducia in uno Stato dal quale si sentono abbandonati, in Forze dell’Ordine sempre più corrotte e in un sistema giudiziario che ha perso ogni credibilità. Secondo i dati consultabili su Afrobarometer (afrobarometer.org) la fiducia della popolazione verso le Forze dell’Ordine lo scorso biennio era al 39%, mentre solo l’8% se ne serviva per cercare giustizia e appena il 3% ricorreva la Tribunale.
Ritenendo quindi non esserci altra alternativa e non trovando altra soluzione, stringe come può quel poco che ha, o cerca di rubare quel poco che non ha. Con determinazione, con rabbia e con inaudita violenza.
Consuetudine il cui prezzo si misura in centinaia di vite ogni anno.
Dov’è la giustizia in tutto questo? E non può esserci pace dove non c’è giustizia, non può esserci vita dove c’è guerra. La vita diviene la cinica e disperata raffigurazione di una pistola puntata.
Così, questo quadro desolante mi appare come un’umanità alla sbando, zoppicante come un vecchietto che ghermendo stretto il suo fedele bastone, barcolla calpestando un terreno dissestato di una sconosciuta baraccopoli. Un’umanità che cerca uno spiraglio di luce in questa tenebra. Perché in fondo, dietro a queste vite disumane, ci sta l’essere umano.
E tra tutte queste guerre e battaglie la mia, di lotta, mi pare contro i mulini a vento. Perché anch’io sto combattendo contro qualcosa, per qualcosa. Forse anch’io sono in prima linea in una mia personale battaglia.
Dov’è la vita in tutto questo? È vita questa?
RINASCITA
La consapevolezza di un reduce di guerra
Mentre la ragione del mio trovarmi qui si scontra con la dura e impenetrabile corazza di vite inasprite dalla vita, rischiando che il senso svanisca in sé stesso, smarrendosi nella tortuosa e affollata via dei buoni propositi, all’improvviso, un lampo rischiara il cammino, ne ravviva il senso, e in questa lunga notte inizio a intravedere un bagliore.
Correndo il rischio di cedere a questo degrado, di soccombere sotto la pesantezza di queste difficoltà e feroci frustrazioni, mi guardo dietro, mi guardo intorno, e tra questa nebbia scorgo una, seppur offuscata, speranza. E sentendomi alle volte le forze mancare, percepisco di non essere solo, di non esser l’ultimo e di essere semplicemente uno dei tanti che prova a portare “quella goccia di splendore e di umanità” che appare qui, oggi, tra tutti questi respingenti respinti, così difficile da trovare. Una tappa di un percorso ben più grande, un tassello di un puzzle.
D’un tratto mi fermo, a mente lucida, prendo fiato, prendo coscienza. Digerito il forte impatto di questa nuova realtà, incassato lo schiaffo della miseria, mi si figurano tutte le silenti bellezze quotidiane, piccoli sussurri che tendono ad essere messi a tacere dal più chiassoso e rimbombante grido della povertà.
Mi accorgo d’un tratto della genuinità nel desiderio di conoscenza da parte di alcuni passanti, di un autista curioso o del ragazzo con cui spesso gioco a pallone, della spensieratezza di una partita a carte o a dama con dei bambini di strada. Mi risuonano nelle orecchie i “Welcome to Kenya, welcome to Africa”. Sorrido pensando alle serene e amichevoli chiacchierate in spagnolo con un gruppo di acrobati che ha vissuto in Spagna, che spesso incontro al mio passare, adesso meccanici. Inizio a cogliere l’interesse nell’incontro. Realizzo come certe volte un piccolo gesto di cortesia e bontà possa sovrastare la fredda e ingombrante diffidenza.
E mi rapisce la vitalità di corte e secche gambe che corrono dietro il rotolio di una palla, l’ingenua curiosità di vivaci occhi, ghiotti di scoperta e novità, l’impacciato districarsi di mani che incerte cercano l’incontro con le mie dita. Linfa vitale che scorre e pompa sangue al cuore di questa nazione.
Nell’affanno ritrovo ossigeno in quelli che ora si rivelano sguardi complici, in nuove conoscenze, in nuovi sorrisi amici, nel caldo saluto del vicino, che sento sempre più vicino. Mi accorgo della cordialità che si nasconde dietro certi occhi, che adesso, semplicemente, accompagnano il mio passaggio. Quei grugni che probabilmente non celavano altro che diffidenza e perplessità.
Realizzo che anch’io in questo periodo stavo vivendo dei contrasti e delle contraddizioni che dovevo risolvere. Che il mio originale punto di vista, forse, non era l’unico possibile. Può darsi che essermi trovato a relazionarmi con vite bellicose mi abbia in principio destabilizzato. E forse certe letture partivano da un mio pregiudizio e difficoltà. E come anche da uno scontro può nascere un incontro, maturo la consapevolezza che forse entrare e immergermi in un nuovo, radicale e differente contesto, muovermi all’interno di un ribaltato punto di vista, essere l’altro, il diverso e vittima di pregiudizio, camminare osservato, a tratti il centro dell’attenzione, è stato semplicemente più faticoso di ciò che mi aspettassi.
Decido di non farmi sovrastare dall’abbruttimento che mi circonda, nello sconforto realizzo che il mio esserci, per tutte queste ragioni, può addirittura guadagnare più valore, e che, nonostante e proprio a causa di tutte queste incancrenite difficoltà, questo potrà risultare, semplicemente e terribilmente, più necessario.
E forse, in realtà, non è poi tutto così sordido e disperato. Gli occhi restano sempre gli stessi, ma gli sguardi cambiano. Forse prima di “cambiare il mondo”, un po’ dovevo cambiare me stesso. Perché la vita muta, ma ti parla. E per imparare ad ascoltare un nuovo linguaggio c’è bisogno di tempo.
Alimentare quella forza, che qua appare sopita, per far riscoprire la dignità di uno scopo, l’orgoglio di una rivalsa, la necessità di un futuro, resta l’unica via possibile. Rendere quel fioco lumicino un sole che brilli di luce propria.
E in mezzo a questo flusso di pensieri, mi si figura il timido sorriso di K., dodicenne venuto dalla strada che oggi si ritrova ad essere il miglior studente della sua classe. E riscopro la vita, ma quella come la intendiamo noi.
Di fronte a questo contesto che può apparire squallido, il giudizio si frena. Perché, d’altronde, restano loro quelli costretti a calpestare giorno dopo giorno il deturpamento di questa terra, condannati a fare i conti con la loro ingiusta e severa vita. E in questo cammino, di mettermi nelle loro scarpe, forse, ancora non ne sono in grado. Ma ciò che sto imparando, è di percorrere, seppur inciampando qua e là, le loro tortuose vie, di avvicinarmi alle loro complicate vite. Vie non segnate calcate da vite segnate. Vite segnate dentro, vite segnate fuori, marchiate da cicatrici sul viso o lungo il corpo che nascondono inconfessabili segreti.
E la risposta è che sì, anche questa, così distante e differente dalla nostra, è vita.
L’armistizio sembra lontano, il cammino per la pace lungo e faticoso, ma almeno sono riuscito a trovare, con questa realtà, e con me stesso, una tregua, un lucido ‘cessate il fuoco’.
E non mi resta che comprendere questa realtà, nell’etimologico senso di prendere tutto insieme, accoglierla nelle sue varie sfaccettature, complessità e difficoltà. Reduce da questo mio piccolo percorso di comprensione, consapevole dei limiti del mio agire e del mio tempo, capisco che il mio passaggio qua può avere degli effetti impercettibili oggi, ma significativi un domani.
E allora soffio, come riesco, come so, su quel lumicino per ravvivarne il fuoco, luce nell’oscurità, perché un’altra vita è possibile anche in questa fetta di mondo, in questo grembo che sanguina. Soffiare e soffiare, anche se ogni tanto mi sento mancare il fiato, anche se ogni tanto la mano tesa all’aiuto viene ferita, viene tradita. Alcune certezze vacilleranno, la fatica potrà sembrare a tratti estenuante e la speranza sembrare dissolversi in un’arida via e confondersi tra la polvere sollevata dai passi di un ragazzo che decide di tornare in strada, ma, raccogliendo l’insegnamento di quel maestro, so che per quanto sicuramente sarà difficile, non sarà impossibile, trovare quell’alba dentro l’imbrunire. Rinascere e rinnovarsi, così un uomo come una società. E un giorno sole diverrai e splendente vita scalderai.
Perché penso che per me, così come per ogni altro, “vita” abbia e debba avere, rispetto a quello che si trovano costretti a vivere loro un altro, splendido, significato.
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