Albania Caschi Bianchi

Albania: le catene dei ruoli di genere e i germogli di una nuova libertà

In un susseguirsi di immagini e storie, Valentina racconta gli sguardi e i sogni, la sofferenza e la tenacia di un popolo ricco di tradizione e contraddizioni, dove fanno capolino giovani donne e uomini che desiderano costruire una società più libera

Scritto da Valentina Federico, Casco Bianco in servizio civile con Apg23 a Scutari

Abbiamo messo piede in Albania per la prima volta a metà luglio, nei giorni più caldi dell’anno. Frastornate dopo parecchi giorni di quarantena, siamo uscite in strada e ci siamo ritrovate inondate dalla luce a percorrere un viale assolato, in direzione del centro.  È uno di quei giorni delle estati albanesi in cui, come racconta Ornela Vorpsi, l’afa è tale che anche la ragione inizia a liquefarsi. Il caldo ci offusca la vista e rende il respiro affannato. Passiamo di fronte alla farmacia, il cartello elettronico segna 42 gradi. Camminiamo lentamente, immerse nel silenzio, ma non nella solitudine: incrociamo numerosi cani randagi, che languono sdraiati nelle aiuole o sul cemento: probabilmente sono stati loro a sgranocchiare quel frammento di costato animale, ora al centro del marciapiede. Al nostro passaggio, alcuni di loro si voltano pigramente, altri non ci degnano di alcuna attenzione,  quindi perché  ci sentiamo così osservate?

Volgiamo lo sguardo ai bar ai lati della strada e ci accorgiamo che sono gremiti di uomini: siedono ai tavolini in piccoli gruppi, davanti a loro un bicchiere di raki, una birra o una tazzina di caffè. Ci fissano nel silenzio ovattato, l’ espressione sui loro volti è seria e intensa, mentre ci allontaniamo si voltano e seguono le nostre figure con lo sguardo. Per loro la vita non è semplice: nel nord dell’Albania l’economia si muove a rilento e le norme che definiscono i ruoli di genere sono ancora vive e sentite. Questo perché città come Scutari hanno accolto e continuano ad accogliere l’emigrazione delle genti dalle montagne, in fuga dalla miseria, che portano con sé la cultura profonda e atavica del paese; è inevitabile che le consuetudini dei villaggi vadano a scontrarsi con la mentalità cittadina, più liberale e centrata sull’individuo.

Secondo il pensiero della tradizione, l’uomo deve saper controllare i propri sentimenti, mostrarsi sempre forte e all’altezza delle sfide. Non gli è consentito mostrarsi vulnerabile, chiedere aiuto. È lui che deve  portare il denaro a casa. È lui che deve difendere l’onore della famiglia e proteggere le “proprie” donne, a costo della vita. Aspettative molto alte da riversare in un semplice essere umano, tanto più se si considera il difficile contesto economico della regione: a Scutari la disoccupazione è alta, il lavoro è scarso e mal retribuito e spesso  manca delle tutele essenziali. I capifamiglia delle zone più povere si affannano per trovare impieghi a cottimo, ad esempio come manovali: si recano ogni mattina in piazza sperando di venire assoldati per qualche lavoro, spesso invano. Alcuni di loro sopravvivono con la pensione di invalidità, altri ancora arrancano nella disoccupazione e nell’indigenza. Ecco perché tanti bar sono pieni di malinconici spettatori dello scorrere della vita altrui, in particolare di quella delle belle ragazze. Vige una legge non scritta, che vuole alcuni locali riservati solo agli uomini. La clientela femminile viene tenuta lontano attraverso gli sguardi ambigui e la forza del numero degli avventori. In generale, solo i locali del centro pedonale, frequentati dai più giovani, vantano una costante presenza di donne.

Il contatto con le albanesi mi ha fatto capire che il rischio di molestie per strada limita le loro libertà. Sono venuta a conoscenza di episodi di stalking o di violenza verbale, addirittura di inseguimenti notturni. Le soluzioni sono sempre le stesse: evitare di uscire la sera, oppure farsi accompagnare da qualche uomo. Alcune giovani si lamentano: “se avessi un fidanzato o un marito che mi proteggesse potrei finalmente sentirmi al sicuro!”.

Nonostante la soggezione, e a volte la paura, l’atteggiamento delle donne, in questo paese, ma anche  in varie parti del mondo (tra cui in Italia), ricade nella trappola patriarcale del rituale preda-cacciatore. I prodotti e i centri di bellezza abbondano, i video musicali e i social sfoggiano donne impeccabili e iper-sessualizzate, che ballano sugli yacht di uomini potenti. Per strada le ragazze camminano altere e indifferenti, a testa alta, consapevoli di essere oggetto di brama. C’è del potere nell’essere desiderati e non concedersi, lasciare i pretendenti languire nella loro mancanza. Ma è un potere effimero, il potere della preda che affama l’animale rapace. Prima o poi, come la preda dovrà rallentare, così la donna dovrà scendere dal piedistallo e cedere al contatto: è un piacere e un diritto di ciascuno, nonché una richiesta della famiglia e della società. Così, scatta il tranello e il rapporto si inverte. A seguito di accordi, o comunque del consenso familiare, si celebra il matrimonio. La sposa viene truccata e pettinata con cura: unghie e ciglia finte, fondotinta e rossetto pesanti la rendono una bambola deliziosa, degna di un museo delle cere. Dopo, la sua vita seguirà un copione già scritto: sarà considerato normale che viva segregata in casa se il marito lo preferisce, è lui a prendere le decisioni. È possibile che subisca violenza e non sappia a chi chiedere aiuto: nonostante leggi avanzate tutelino sulla carta i diritti di donne e bambini, le istituzioni faticano ad applicarle seriamente e senza discriminazioni. La situazione diventa critica nei contesti più poveri o tradizionali, dove la vita è regolata dal Kanun, un codice di consuetudini risalenti al medioevo che è ancora rispettato nelle zone montane del nord del paese. Come la Doruntina di Kadaré, le giovani spose smettono di essere proprietà degli uomini della famiglia di origine e passano di diritto alla famiglia del marito, che potrà disporre di loro come preferisce.

Ogni albanese inoltre, conosce e tramanda la leggenda che verte attorno alla costruzione del castello di Rozafa, che domina e veglia su Scutari. Si tratta di un racconto crudo e sentito, emblematico nel descrivere la condizione e il ruolo che una donna potrebbe dover rivestire in questo complesso paese. Si narra che, ai tempi della costruzione della fortezza, l’erezione del muro di cinta fosse ostacolata da un maleficio, che poteva essere sciolto solo attraverso il sacrificio di una donna. Gli eventi vollero che la prescelta fosse la moglie di uno dei tre costruttori, di nome Rozafa: alla giovane venne chiesto di lasciarsi murare viva entro le fondamenta del castello. La donna accettò il suo destino, ma a una condizione: dalla pietra avrebbe dovuto emergere un seno, per nutrire il suo bambino, e un braccio, per cullarlo. Il martirio della donna sciolse la maledizione e permise l’erezione delle mura e del castello.

Proprio come Rozafa, tantissime donne portano un peso immenso, che le opprime e le incatena. Nel contempo, esse rappresentano il pilastro che sostiene la società sin dalle sue fondamenta. Nel mio soggiorno qui, ho avuto il privilegio di conoscere molte di e ne ho ammirato la forza e la bellezza. C’è Ana, abbandonata in fasce e cresciuta in orfanatrofio negli anni del comunismo. Ha dato in adozione la sua prima figlia, nata da uno stupro commesso durante la guerra civile di fine anni ’90 e rimasto impunito; oggi può solo sbirciarla sui profili social.  Ana, adesso, con il suo fare ruvido e mascolino, lavora con energia per dare un futuro alla sua seconda bambina. Marta, invece, ha vissuto tra le montagne, dove di nascosto insegnava alle sue piccole a leggere e a scrivere, poiché il marito non consentiva che andassero a scuola. Adesso è in un ambiente protetto, ha portato in salvo i figli e affronta con coraggio il divorzio. Lavora per un noto marchio italiano, è sottopagata e senza tutele. Oppure c’è Viola, che, come tante, convive con il marito malato e depresso, ci sorride mentre ci offre il caffè e le primizie del suo piccolo orto. Paola, invece, ha solo sedici anni, va a scuola e rivendica il suo diritto a parlare di amore e di sesso, sbuffa raccontando di come spesso rischi di essere etichettata.

A fianco di queste donne si fa sempre sempre più vivace la presenza di numerosi ragazzi e uomini che, con le loro parole, raccontano la discriminazione e il pregiudizio, con le loro azioni, vi si oppongono quotidianamente. C’è Simon, che lavora come assistente sociale e dedica la sua vita a combattere la povertà: lo vediamo ogni sabato dialogare con le donne delle famiglie meno abbienti, ascolta della loro fatica e cerca di alleviarla con tutti gli strumenti di cui dispone. Poi c’è Giorgio, 20 anni, occhioni grandi da cucciolo. Si dibatte tra il ruolo di uomo forte, pronto a proteggere la famiglia, e la vulnerabilità che non riesce ancora a nascondere, segno prezioso della sua sensibilità. Sa esprimere con spontaneità i suoi sentimenti e vorrebbe che tutti i suoi amici si sentissero liberi di farlo. Giorgio si arrabbia perché non può vivere l’amore in maniera spensierata: se passeggia mano per la mano con una ragazza, sa che le persone parleranno ed emetteranno giudizi, e i giudizi potranno diventare azioni. Come lui, molti giovanissimi si oppongono silenziosamente alle costrizioni sociali e provano a far germogliare un amore più libero per l’altro e per loro stessi. I ragazzi lasciano crescere i riccioli  e le ragazze indossano felpe larghe e scarpe da ginnastica. Forse andranno all’università e riempiranno le fila di un mondo professionale istruito, con un rapporto di genere progressivamente più equilibrato; oppure, semplicemente con il loro pensiero, regaleranno al  loro paese l’espressione di una mentalità più aperta e libera.

La sfida che hanno di fronte non è semplice: sciogliere il vincolo delle tradizioni è uno sforzo complesso, che può portare a una deriva tristemente nota al mondo occidentale, fatta di a perdita di senso, disordine e incertezza. I ragazzi di cui racconto dovranno provare a riempire il vuoto che segue alla decostruzione del mondo precedente: tenteranno di sfuggire alla parabola individualista in cui molte società sono cadute? Forse sì, i buoni segnali ci sono: le piccole associazioni che si prodigano per ripulire le spiagge e i laghi dai rifiuti, le raccolte alimentari a favore dei poveri e dei senzatetto , le iniziative per ridurre lo spreco di cibo, i murales che ravvivano i palazzi spogli e le centraline elettriche delle grandi città. Questi nuovi spazi di condivisione hanno il merito di  dirigere l’attenzione sulla dimensione pubblica dell’ambiente in cui si vive: grazie ad essi, è possibile intrecciare le vite dei singoli in una nuova forma. Sono i primi passi verso la creazione di una comunità più libera, ma anche più unita, che regali un nuovo senso all’esistenza di chi ne fa parte.

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