Come secondo episodio, proponiamo la testimonianza da Lima di Giovanni Vaccaro, Responsabile FOCSIV Perù, raccolta da alcuni Corpi Civili di Pace che hanno svolto il loro servizio nel paese fino a marzo 2020: Alessia Martoscia con Progettomondo MLAL a Juliaca, Cecilia Sartori con FOCSIV a Lima, Maria Casolin con IBO Italia a Paita e Marta Rossini con FOCSIV a Otuzco.
É la sera di lunedì 9 novembre e la notizia nei mezzi di comunicazione scoppia in ogni angolo del Perù: il Congresso della Repubblica, attraverso il suo presidente Manuel Merino, ha destituito il presidente della Repubblica, Martín Vizcarra. L’incredulità per l’inopportuna misura presa si somma alla rabbia per la consapevolezza di assistere ad un vero e proprio atto di forza da parte del Congresso. La votazione per la destituzione del presidente si è aggrappata ad un vuoto legislativo, che nel punto specifico sulla causa per “incapacità morale permanente” non stabilisce quali siano i casi concreti che possano definire tali insufficienze. Di conseguenza, il provvedimento ha fatto sorgere alcune perplessità non solo nella popolazione, ma anche nella maggior parte dei membri del Tribunale Costituzionale. Questo perché l’interpretazione storica della norma, basata sull’evoluzione del diritto nel Paese, attribuirebbe alla disposizione il valore di “incapacità mentale”. Tale misura, adottata nello specifico nei confronti di Vizcarra, è stata giustificata da intercettazioni telefoniche che dimostrerebbero presunti favoritismi politici e supposti atti di corruzione. I fatti, ancora tutti da dimostrare, sarebbero stati commessi prima ancora di essere Presidente della Repubblica e risalirebbero a quando era Presidente della Regione di Moquegua, al sud del Perù. A nulla sono servite le rassicurazioni di Vizcarra, che aveva garantito che si sarebbe sottoposto ai relativi processi al termine del mandato presidenziale. Va detto anche che la deposizione del presidente si scontra con il concetto di immunità parlamentare di cui lo stesso Vizcarra usufruiva, cioè il fatto di non poter essere messo in discussione fino a fine mandato.
Nonostante ciò, la sera del 9 novembre, il Paese iniziava una lunga notte, senza presidente della Repubblica e senza Consiglio Direttivo del Congresso. Si respirava un’aria da colpo di stato, dovuto ad una vera e propria guerra tra poteri. In quel momento si chiariva il motivo della accanita campagna mediatica contro Vizcarra dei giorni precedenti, ovvero il compimento di un paradosso: la destituzione di un presidente con più del 60% di approvazione da parte del Congresso e con il 65% di disapprovazione popolare. Questo a 5 mesi dalle nuove elezioni presidenziali e congressuali e nel bel mezzo di una gravissima crisi sanitaria causata dal COVID-19. Per più di un mese, il Paese è stato la nazione al mondo con il maggior numero di morti e contagiati in proporzione al numero della popolazione. A ciò, si è aggiunta una pesante crisi economica e sociale: ad ottobre di quest’anno si è calcolato una perdita del 30,2% del PIL rispetto all’anno scorso, Inoltre, su una popolazione economicamente attiva di 17,1 milioni di persone, di cui solo il 29% possedeva un regolare contratto fino a febbraio 2020, quasi 2 milioni si sono trovate senza lavoro. L’indignazione cresceva nel ricordarsi che il Congresso aveva bloccato la riforma elettorale che avrebbe escluso dalle prossime elezioni i leader di partiti politici con problemi con la giustizia. La sua approvazione avrebbe compromesso il futuro politico di Antauro Humalae e Cesar Acuña, ma soprattutto di Keiko Fujimori- figlia dell’ex presidente condannato per violazione dei diritti umani e capa dell’opposizione -per atti di corruzione legati al caso Odebrecht e allo scandalo dei “colletti bianchi del porto”[1]. Molti episodi di malaffare nella Pubblica Amministrazione si sono succeduti nella storia recente del Paese, mostrando come gli interessi lobbistici dei principali gruppi economici siano ampiamente rappresentati dal Congresso. Gli stessi gruppi che hanno però mostrato tutta l’indifferenza possibile durante il lungo periodo di pandemia che sta vivendo il Perù. Il desiderio di dire ‘basta’ è quindi cresciuto sempre di più tra la popolazione non solo per la destituzione presidenziale, ma anche per tutti gli abusi perpetrati negli ultimi 30 anni di oppressione ed umiliazione. La ribellione alla manovra contro Vizcarra è nata dalla volontà di non farsi sottomettere, ancora una volta, dall’elite economica che volge le spalle alle reali necessità del Paese, considerandolo ancora residuo coloniale. Quella sera i cuori di milioni di peruviani si agitavano sempre più forte, perché si sentiva che in quel momento si stava facendo la storia recente di questo povero e martoriato Paese. La paura lottava con l’indignazione. I sussulti di ribellione si scontrano con certa rassegnazione per l’operazione attuata “a norma di costituzione”, che molti mezzi di comunicazione ripetevano fino all’estremo.
Improvvisamente, è scoccata la scintilla. I giovani sono stati i primi a scendere in strada e a sfidare tanto il coprifuoco stabilito per la pandemia, quanto le minacce di repressione giunte fin da subito da parte del governo di fatto. E’ stata proprio la nuova “generazione del bicentenario”, così chiamata perché il 28 luglio del 2021 si celebreranno i 200 anni di indipendenza dalla colonizzazione spagnola, a riempire per prima le strade. I “millennium” hanno occupato pacificamente le piazze con canti e balli di allegria e speranza, facendo scorgere una nuova luce tanto potente da illuminare tutto il Paese, senza nessun tipo di esclusione. Ma da chi è formata la “generazione del bicentenario”? Questi giovani sono universitari, membri di organizzazioni sociali, sono le figlie e i figli del Perù liberista che rifiutano l’imposizione di costruire un Paese basato sulla morale dell’efficienza del libero mercato ad ogni costo. Rifiutano il progetto di voler convertire al Perù in una semplice etichetta commerciale e non rinunciano ad un progetto di paese e di nazione dove ci sia spazio per tutti. La possibilità di dire basta a tanta prepotenza storica, con radici coloniali, riscalda i cuori ed illumina gli occhi di milioni di peruviani, trasformando le manifestazioni che hanno avuto luogo dal 9 al 15 novembre nelle più grandi manifestazioni nella storia del Paese. La speranza si faceva strada, sorretta e confermata da centinaia di pronunciamenti di quasi tutte le istituzioni ed organizzazioni nazionali.
Nonostante l’animo pacifico delle proteste, le manifestazioni hanno ricevuto una brutale ed inumana repressione. Centinaia di video, circolati sulle reti sociali, hanno mostrato poliziotti che sparavano all’impazzata, lanciavano lacrimogeni perfino sui mezzi pubblici, picchiavano cittadini senza motivo e procedevano ad arresti arbitrari ed ingiustificati anche di avvocati di organizzazioni di difesa dei diritti umani. Questa maniera di operare è parte di una strategia voluta dal presidente di fatto per criminalizzare la protesta. Infatti, senza dubbio rispondeva ad ordini dall’alto del governo di fatto di Manuel Merino, perché altrimenti non si puó spiegare la quantità spropositata di lacrimogeni e pallottole di gomma, il cui utilizzo è proibito nelle manifestazioni. La violenza perpetrata dalle forze dell’ordine durante le proteste ha raggiunto picchi altissimi. Nella notte tra il giovedì 12 e venerdì 13 si è raggiunto il punto più alto della tragedia. Si confermano a livello nazionale varie centinaia di arresti arbitrari, tra cui molti minorenni, 48 scomparsi (molti dei quali per più di 2 giorni) e 2 ragazzi deceduti. La notizia della morte di Inti Sotelo e Bryan Pintado, nominati dal popolo eroi nazionali del bicentenario, si è fatta largo nell’incredulità generale e si è trasformata in indignazione e rabbia. I 50 ragazzi spariti durante le proteste e ricomparsi nei giorni seguenti hanno denunciano scene incredibili. Alcune ragazze sono state obbligate a svestirsi davanti a gruppi di poliziotti e poi sono state violentate, altri sono stati obbligati a fare flessioni in gabinetti con urina sul pavimento. Non si può accettare che in un Paese libero e democratico dei cittadini vengano vessati per il proprio diritto a manifestare e che dei ragazzi poco più che ventenni vengano uccisi dalla polizia di stato, la stessa che dovrebbe difendere la popolazione. Il bilancio finale della settimana dal 9 al 15 novembre è dunque tragico. Ancora oggi ci si domanda il perché. Perché si è retrocessi ai fantasmi della guerra interna che ha contrassegnato il paese dal 1980 al 2000, quando si pensava che le tragedie di quegli anni fossero ormai una lezione storica appresa e superata.
Oggi, il nuovo governo di transizione è presieduto da Francisco Sagasti. Uomo di dialogo e tolleranza, è senza precedenti penali ed è uno dei pochi nel Congresso nominato Presidente della Repubblica praticamente dalla “piazza”. Ha ora il dovere di rispondere al Paese intero e soprattutto ai giovani, che rimangono vigili e consapevoli di essere ormai il nuovo soggetto politico emerso in queste settimane. Inoltre, il presidente ha il dovere di trovare i responsabili diretti ed indiretti dei crimini di questa settimana nefasta ed operare un’urgente riforma dell’apparato di polizia, in quanto gli abusi hanno risposto ad una strategia che da anni si perpetra a livello nazionale. Strategia testimoniata dalle numerosissime vittime prodotte dalla repressione della polizia contro le manifestazioni di protesta nei centinaia di conflitti socio-ambientali che imperversano nel paese da decenni. Infine, ma non per ultimo, il nuovo presidente è chiamato a rispondere alla crisi sanitaria, educativa ed economica causata dalla pandemia, preparando le basi per il nuovo governo che si insedierà il prossimo 28 luglio. Il desiderio di arrivare al bicentenario dall’indipendenza più liberi è forte ed il sogno di un Perù che alza la testa dopo secoli “di crudele schiavitù”, come recita l’inno nazionale, si sta finalmente realizzando.
[1] Si tratta di un’organizzazione criminale peruviana protagonista di uno scandalo di corruzione dei livelli più alti del sistema giustizia del Perù.
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