Corpi Civili di Pace Ecuador

Spossessamento dei territori e diritti violati

Un genocidio lungo secoli

Scritto da Annalisa Bosco, Corpo Civile di Pace con Focsiv a Quito

“L’accumulazione infinita di capitale e l’appropriazione senza fine della terra sono le due facce della stessa medaglia. L’una è impensabile senza l’altra […] Il saccheggio delle zone di frontiera e i progressi nella produttività del lavoro delle metropoli formano un tutto organico.” (Jason W. Moore; 2017: 131-132).

Il 21 maggio di ogni anno si celebra la giornata internazionale Anti Chevron (prima Texaco), una ricorrenza che coinvolge organizzazioni mondiali, attori della società civile e difensori dei diritti umani, nella denuncia dei crimini commessi dalla multinazionale statunitense. Il fatto che esista una data globale nella quale schierarsi contro Chevron è un punto di riflessione importante. Infatti, come riportato nell’ Environmental Justice Atlas[1], i conflitti scaturiti da questa industria estrattivista sono presenti in diverse aree del globo – anche in quelle più impensabili – per un numero che supera i 30 casi. Un altro dato che emerge dalla mappa è che, spesso, le problematiche derivanti dall’estrattivismo coincidono con la geografia dell’impoverimento mondiale. In effetti c’e un nesso molto evidente tra le attività di sfruttamento dei territori e il progressivo spossessamento delle terre dei popoli, specialmente di quelli nativi. Tale processo è, per molti versi, simile alla diffusione strategica delle aree destinate alle monocoltivazioni pensate per il consumo globale.

Da svariati anni si è posta l’attenzione sull’era geologica che stiamo vivendo e che, secondo alcuni studi, prenderebbe il nome di antropocene, alludendo all’impatto delle attività antropiche sulla trasformazione degli ecosistemi. Questa nozione scientifica, ancora in fase di validazione, ha assunto, nel tempo, significati diversi portando alla luce teorie di vario tipo, spesso anche opposte tra loro. Le relazioni di potere, natura e ricchezza sorte con la scoperta delle Americhe hanno reso possibile le rivoluzioni industriali e con esse una serie di conseguenze antropoceniche. Tale postulato allude al fatto che, con molta probabilità, l’era in questione non sia poi cosi recente, e, anzi, si sarebbe strutturata attorno alle dinamiche produttive e commerciali e all’accumulazione dei profitti. Tutti questi fattori, nel corso dell’ascesa della civiltà capitalista, hanno prodotto una perdita complessiva di natura, la quale, poco a poco, si è manifestata sotto forme diverse: catastrofi naturali, estinzione di specie animali o pandemie. La creazione di valore (capitale) si è, pertanto, sviluppata attraverso il deterioramento dell’ambiente e dei rapporti socio-ambientali. Da qui sorge la nozione di capitalocene (“età del capitale nella natura”) e, quindi, la supposizione che l’antropocene si riveli solo dopo che potere, sapere e capitali diventano cause scaturenti dell’attività umana[2].

Tuttavia, è altrettanto vero – seppur di difficile accettazione – che, in assenza di conseguenze tangibili, come quella del cambiamento climatico o della deforestazione più sfrenata, ben poco si sarebbe mosso sul piano della giustizia sociale, ambientale e economica. Esistono, oggi, delle realtà in cui non si dispone di acqua potabile giornaliera per via degli alti livelli di contaminazione prodotti dalle industrie estrattiviste. Nel contesto COVID attuale questo dato risulta ancora più allarmante. In Ecuador, ad aprile, la rottura di uno degli oleodotti principali del paese ha riversato acque tossiche nei fiumi Coca e Napo, spingendosi poi fino al Perù. Negli ultimi giorni, molti bambini hanno riportato irritazioni cutanee per via del contatto prolungato con questi corsi d’acqua essenziali per moltissime culture indigene. Il danno più grande degli ultimi 15 anni si è consumato sotto i riflettori degli esperti che lo hanno definito “prevedibile” per via delle erosioni, delle piogge torrenziali e di altri fenomeni scaturiti dal degrado ambientale operato dall’uomo. Sono 35000 le persone colpite, di cui 27000 indigene. Diverse organizzazioni hanno presentato una azione di tutela affinché vengano prese misure cautelari dal momento che lo Stato ha deciso di rimandare “momentaneamente” un possibile intervento. L’episodio, si colloca nella lista dei rischi connessi alla violazione dei diritti fondamentali e che, nel caso dei popoli nativi, rappresenta una minaccia per la loro sopravvivenza. Ma questo non è nulla di nuovo. Oggi si tende a parlare di genocidio in senso troppo riduttivo, come se la possibilità di estinzione delle culture millenarie fosse di recente origine e, probabilmente relazionata alla diffusione di un virus. In realtà, però, tale minaccia è sempre stata lì, tracciando un cammino parallelo alle opere di sfruttamento dei territori e impoverendo sempre più le terre e la relazione degli uomini con le stesse.

La svolta biocentrica che ha caratterizzato gran parte degli ordinamenti d’oltreoceano ha da tempo reso la Pachamama, o madre terra, un soggetto di diritto riconoscendo la pluriculturalità degli stati latinoamericani e i diritti dei popoli indigeni. Uno dei principi essenziali per la tutela delle culture native è, infatti, quello della cosmovisione, cioè la possibilità di una vita in armonia con la natura che aspira al raggiungimento del buen vivir. Il legame con il territorio, pertanto, assume un ruolo centrale in questo processo. Tuttavia, le costanti invasioni e violazioni hanno messo in evidenza il mancato rispetto di quanto sancito dalle costituzioni o forse proprio la mancata applicazione delle stesse da parte dei governi. Quando il COVID è arrivato in Ecuador, sulle mappe nazionali dei contagi non figuravano le province amazzoniche in cui l’estrattivismo è prassi. In parte per via di un sistema sanitario e di informazione carenti e, poi, per una possibile strategia di rassicurare il mercato del petrolio in crisi a livello mondiale. Di fatto da quando è scoppiata la pandemia, le attività di estrazione e raffinazione di petrolio non hanno mai smesso di operare, anzi, in molti casi si sono addirittura intensificate per mezzo di pratiche non del tutto legali.

Nel corso della storia le organizzazioni indigene latinoamericane hanno raggiunto traguardi importanti nella lotta contro lo spossessamento dei territori seppur sempre esposte al rischio di una condanna. In paesi come Colombia o Argentina, i leader difensori dell’ambiente sono, spesso, messi a tacere mediante uccisione. La salvaguardia dell’ambiente originario, del bosque primario, è una questione che non convive facilmente con gli interessi economici degli alti vertici. Nel caso più specifico dell’Ecuador, dal 1993 è in corso un giudizio contro i danni umani e ambientali prodotti da Chevron, un giudizio iniziato 26 anni fa che è ancora vigente. I firmatari dell’azione di tutela sono uomini, donne, contadini e indigeni delle province di Orellana e Sucumbíos nelle quali la distruzione territoriale operata dalla multinazionale ha reso la popolazione maggiormente vulnerabile, escludendola, peraltro, dall’accesso alla giustizia. L’Ecuador oggi si colloca al primo posto per livelli di cancro in tutto il continente latinoamericano con tassi di mortalità in crescita specie per le donne, dato il loro rapporto più diretto con i corsi d’acqua e la terra in generale. Tutti questi fattori hanno implicato una progressiva modificazione delle strutture socio-culturali, spingendo le comunità a sviluppare meccanismi di resistenza ai cambiamenti ecosistemici. La perdita di territorio ha generato una sempre minore reperibilità delle risorse e della loro qualità, aggravando ancor di più le condizioni di salute della popolazione, uccidendo i saggi, gli sciamani, i detentori della conoscenza ancestrale e, con essi, le pratiche tradizionali come la medicina e la coltivazione di prodotti autoctoni.

Per queste ragioni, il COVID non sarà mai la sola ed unica causa di un possibile genocidio e l’antropocene, in realtà, è soltanto un sintomo in età avanzata. Il vero problema è la perpetua scissione tra ciò che è esterno (natura) e ciò che è interno (lavoro) e la volontà di voler continuare ad ordinare la realtà seguendo questa stessa logica, generando forme di esclusione verso gli individui e gli ecosistemi. Al contrario, se l’aspirazione è quella ad un mondo post-COVID diverso e- forse- migliore, occorrerà partire da una ridefinizione dei rapporti tra gli esseri umani e degli stessi nel contesto natura, volgendo a quell’equilibrio cosmogonico che, dopotutto, ha permesso la sopravvivenza delle culture millenarie e dei territori ancestrali in perenne resistenza.

[1] A Planet in Danger: the world of Chevron

[2] Jason W. Moore (2017) Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia mondo nell’era della crisi planetaria.

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