• Buoenos Aires ai tempi del COVID-19

Argentina Corpi Civili di Pace

Isolamenti

La situazione Covid-19 nell’ambiente psichiatrico di Buenos Aires

Scritto da Luca Miotto, Stefania Teani e Noemi Guarracino, Corpi Civili di Pace con Cesc Project a Lanùs

Agli inizi di marzo 2020, non si poteva immaginare che nel giro di una decina di giorni le misure draconiane applicate in Italia sarebbero state adottate anche in Argentina. I casi confermati allora si contavano sulle dita di una mano ed erano tutti “importati”, ovvero argentini di ritorno da altri paesi. Ancora lo stesso 9 marzo, giorno in cui in Italia si annunciava la chiusura generalizzata del paese, centinaia di migliaia di persone invadevano le strade di Buenos Aires in occasione dello sciopero transnazionale femminista.

Pochi giorni dopo, il 19 marzo, anche in Argentina scattava la quarantena e si imponeva per decreto l’isolamento e il distanziamento sociale (Aislamiento Social, Preventivo y Obligatorio). Mentre scriviamo i nuovi casi aumentano quotidianamente nell’ordine di più di un centinaio e la chiusura quasi totale è prevista almeno fino al 24 maggio.

Fin da subito, abbiamo seguito con molta preoccupazione l’evolversi della situazione italiana. Se un occhio era rivolto alle nostre rispettive città e ai nostri affetti, con l’altro guardavamo alla gravità di quello che sarebbe potuto succedere con la diffusione del virus nei luoghi che stavamo attraversando come volontari dei Corpi Civili di Pace, ovvero centri comunitari di salute mentale e ospedali psichiatrici monovalenti.

Nonostante la Ley Nacional de Salud Mental 26.657 del 2010 ne imponga la chiusura, infatti, nelle strutture perlopiù fatiscenti dei manicomi argentini sono ancora internate all’incirca 12.035 persone[1], in pessime condizioni igieniche e in costante difficoltà economica. Questa situazione, caratterizzata dall’ammassamento in camerate da trenta a sessanta persone, dall’elevata età media degli internati e da terapie basate esclusivamente sul prolungato consumo di psicofarmaci – il periodo di internamento medio si aggira sugli 8,2 anni – che ne compromettono la salute favorendo l’insorgere di altre patologie, rende questi luoghi delle potenziali polveriere.

Contemporaneamente all’adozione delle misure di contenimento su scala nazionale, l’ospedale psichiatrico maschile José T. Borda di Buenos Aires ha limitato i collegamenti tra l’interno e l’esterno della struttura, sospendendo le visite e i permessi di uscita dei pazienti. Inoltre, sono state sospese tutte le attività socio-culturali ed economiche che avevano luogo all’interno di questi spazi. Nonostante questa chiusura, Radio La Colifata ha deciso di portare avanti il suo lavoro da remoto, attraverso collegamenti telefonici tra i partecipanti e i pochissimi telefoni degli internati.

Nell’ospedale psichiatrico femminile José A. Esteves, nella periferia di Buenos Aires, la nuova direzione, impegnata attivamente nella demanicomializzazione, ha adottato simili misure di limitazione dei contatti con l’esterno, salvaguardando però le attività svolte all’interno. Cercando di approfittare di questa situazione per aprire l’ospedale al resto della comunità si è cercato di farne un polo di aggregazione per allargare la rete territoriale di psicologi/psicologhe, psichiatri/psichiatre, accompagnanti terapeutici e infermieri/infermiere.

Anche per le donne che fanno parte del Programa de Rehabilitación y Externación Asistida, quindi già uscite o in uscita dall’ospedale Esteves e che normalmente attraversano il Centro Comunitario Libremente, lo sviluppo della pandemia ha significato la sospensione delle attività alle quali si dedicavano. Molti dei laboratori da loro seguiti sono stati convertiti e si svolgono ora virtualmente, tramite dirette facebook o videochiamate. Tuttavia, possono continuare a contare sull’assistenza medica e terapeutica della parte clinica che viene offerta nel piano superiore del centro comunitario stesso. Sono stati rafforzati o istituiti, inoltre, i canali di comunicazione che gli permettono di restare in contatto con accompagnanti e infermieri.

Come è ormai evidente, l’obbligo di restare a casa non comporta per tutti le stesse difficoltà. Nel caso delle persone internate in strutture psichiatriche – ma per la questione carceraria si potrebbe fare un discorso analogo – è lecito supporre che questa situazione rappresenti una severa recrudescenza delle già gravi problematiche che le attanagliavano. Se da una parte ci si può interrogare su cosa si possa provare a vivere un’intera vita in condizioni simili alla quarantena[2], senza poter vedere amici o parenti, senza la libertà di uscire e venendo continuamente percepiti come una potenziale minaccia, dall’altra ci preoccupa il doppio livello di isolamento che colpisce le persone che soffrono di problemi psicologici. Quello che emerge con ancora più forza da questa situazione, dunque, è la necessità di ripensare la salute mentale basandosi su un modello centrato sulla solidarietà e sulla comunità, anziché sull’isolamento e sull’individualizzazione.

[1] Secondo i dati del Primer Censo Nacional de Personas Internadas por Motivos de Salud Mental, realizzato dall’ Órgano de Revisión Nacional tra il 2018 e il 2019.

[2] http://entredichos.trabajosocial.unlp.edu.ar/2020/04/28/vivir-en-cuarentena-la-situacion-de-los-manicomios-en-contextos-de-aislamiento-social-preventivo-y-obligatorio-por-covid-19/

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