Il Perù, paese internazionalmente conosciuto soprattutto per le sue innumerevoli bellezze archeologiche e paesaggistiche, è il secondo, dopo il Brasile, ad ospitare una tanto vasta porzione di foresta amazzonica, che ricopre ben il 60% della sua superficie totale. Sebbene geograficamente l’Amazzonia continui ad essere percepita dallo Stato e da numerosi peruviani come “periferica” rispetto alla capitale Lima, ai grandi centri costieri e ai centri turistici, ciò non di meno è al centro di numerosi interessi commerciali. Primo tra tutti l’estrazione petrolifera, gestita in prima persona dalla compagnia statale Perupetro, oltre che da altre compagnie internazionali, in secondo luogo l’agricoltura intensiva di prodotti quali soya, olio di palma (un esempio sono i latifondi del gruppo Romero) e più recentemente la canna da zucchero, necessaria per la produzione di biocarburanti, e infine le innumerevoli attività illegali tra cui il commercio di legname e la produzione e commercializzazione di cocaina.
Sebbene alcune di tali attività siano determinanti per lo sviluppo economico del paese, non si possono ignorare le conseguenze devastanti di queste sull’ecosistema amazzonico e i suoi abitanti. Queste attività riguardano numerosi contratti stipulati tra le grandi imprese e stati per consentire l’investimento e lo sfruttamento della terra, fenomeno noto con il termine di land grabbing. Il land grabbing comporta, oltre che danni ambientali quali la deforestazione, la contaminazione e impoverimento del suolo, anche lo “sradicamento” e il ricollocamento di numerosi abitanti indigeni, per i quali il territorio non rappresenta solamente un mezzo di sussistenza ma il fulcro della loro identità culturale e organizzazione sociale. Nonostante la popolazione amazzonica rappresenti solamente il 13% della popolazione totale del Perù[1], essa comprende 51 delle 55 etnie indigene dell’intero paese. Pertanto, il land grabbing incide pesantemente sul patrimonio culturale dell’intero paese: il diritto alla terra non è solamente un diritto alla proprietà materiale, ma è garanzia di salvaguardia di quell’identità culturale che costituisce un bene comune.
È interessante a questo punto fare un breve excursus sulla situazione delle comunità Kichwa di San Martin. San Martin è uno dei 5 dipartimenti che formano la regione amazzonica peruviana; situato nella parte nord del paese è caratterizzato dalla cosiddetta “selva alta”, ovvero una foresta che si sviluppa sui pendii montuosi che man a mano portano dall’imponente catena montuosa delle Ande alla sterminata pianura amazzonica. È proprio tale posizione strategica ad aver permesso a San Martin di diventare una delle prime porte d’accesso all’Amazzonia peruviana da parte dei conquistadores spagnoli già pochi decenni dopo la conquista dell’America. Moyobamba (attuale capoluogo di regione), la cui fondazione risale ancora al 1540, rappresentò, con il suo primato di prima città spagnola fondata nella selva, il primo punto di accesso all’Amazzonia da parte di esploratori, cercatori di tesori e missionari evangelizzatori. La bramosa ricerca della famosa El Dorado, celata secondo gli spagnoli da quel muro verde, portò alla scoperta dell’alterità incarnata dai popoli indigeni, che per secoli si batterono nella difesa della loro El Dorado, la foresta. La lotta, che durò secoli, fu inutile e avanzò ben presto la “civiltà”, portando con sé le città, la fede, la “verità”.
Cinquecento anni dopo, la “civilizzazione” ha ripulito molti dei pendii boschivi, inquinato i fiumi, costruito le strade che hanno portato numerosi prodotti di lusso di cui la civiltà dei consumi è fiera e continuato instancabilmente il processo di evangelizzazione iniziato secoli fa, offrendo però una più vasta gamma di opzioni rispetto all’ormai desueto cattolicesimo: Chiesa Evangelica, Chiesa degli Avventisti del Settimo giorno, Chiesa Pentecostale e numerose altre. Questo attacco ai valori e alle credenze delle comunità indigene il più delle volte ha portato a quelle forme di sincretismo che rappresentano l’estremo tentativo di salvaguardia della propria identità. La penetrazione, inoltre, dei nuovi idoli della cultura occidentale, il consumismo e la tecnologia, rischiano, ammaliando soprattutto le nuove generazioni, di portare ad un definitivo allontanamento dalle proprie radici identitarie. Un dato preoccupante, nel caso delle comunità Kichwa, è inoltre la perdita sempre maggiore della lingua: sui 41.200 Kichwa censiti dal ministero della cultura, infatti, solo 10.085 parlano ancora la lingua Kichwa.[2] Complice lo spesso carente sistema educativo che, nella maggior parte dei casi, non applica un’educazione interculturale e bilingue, come imporrebbero alcuni provvedimenti a tutela delle comunità.
Questo insieme di fattori, accompagnati dalla costante discriminazione delle comunità sia da parte dei cittadini mestizos (meticci) che delle autorità regionali, ha portato molti indigeni ed intere comunità a porsi la fatidica domanda “Mi sento indigena o no?” e molto spesso a rinnegare le proprie stesse origini. Ed è comprensibile, non è facile essere indigena. La dimostrazione di ciò risiede anche nella storia recente. Tra gli anni ‘80 e 2000 il Perù intero è scosso dal conflitto interno armato tra l’esercito e gli esponenti di Sendero Luminoso, un movimento rivoluzionario armato di ispirazione maoista che aveva lo scopo di ribaltare il governo, istituendo un sistema di tipo socialista che garantisse i diritti dei contadini, senza fare distinzione tra indigeni e non. Nel caso amazzonico Sendero Luminoso si ritrovò in alcuni casi a socializzare e prendere parte anche a numerose attività di narcotraffico già presenti sui territori e che (nel caso della coltivazione di Coca) coinvolgevano anche le comunità indigene stesse. Le comunità indigene, dunque, si ritrovarono al centro di un triangolo tra Stato, Sendero Luminoso e narcotraffico (nel quale solo un minimo numero era coinvolto) trovandosi minacciati e spesso uccisi dai senderisti, se decidevano di non aderire al movimento, dal narcotraffico se decidevano di non collaborare e dall’esercito che li accusava di collaborare con i gruppi armati o con le attività illegali. Sebbene fossero centinaia le scomparse e uccisioni per mano dell’esercito e dei senderisti denunciate successivamente alla “Comision de la Verdad”, esse rappresentano in realtà solo una minima parte di quelle avvenute. Il silenzio circa le ferite lasciate da questo sanguinoso ventennio riecheggia in tutta la selva, e sono rare le occasioni in cui effettivamente emergano racconti sul tema. Tutte le violenze subite e l’instabilità causata da tale conflitto hanno generato, in alcune zone, una forte disgregazione sociale e un clima di diffidenza generale tra i componenti stessi delle comunità indigene, facilitando in questo modo l’entrata delle multinazionali all’interno del loro territorio.
Da quanto esposto finora si può capire la difficoltà ad operare in una realtà così complessa ed a tratti paradossale, da cui però emerge chiaramente la necessità di far leva sulla valorizzazione della cultura identitaria quale strumento di unificazione sociale. Come per altri popoli amazzonici, anche per il popolo Kichwa il patrimonio culturale e l’identità non sono scindibili dal proprio territorio. Pertanto, è necessaria una pressione politica nazionale ed internazionale affinché gli stati dove risiedono popoli indigeni ai quali non vengono riconosciute le loro terre, applichino la Convenzione ILO 169 (e numerose altre disposizioni internazionali e nazionali) al fine di garantire il diritto alla terra e all’autodeterminazione dei popoli indigeni.
[1] http://www.sinodoamazonico.va/content/sinodoamazonico/it/la-panamazzonia/l-amazzonia-in-peru.html
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