Corpi Civili di Pace Perù

Un mese da osservatrice a distanza

Perù tra stato di emergenza, attività estrattive e tutela legale delle forze dell’ordine

Scritto da Elisa Ghezzi, Corpo Civile di Pace con Focsiv a Puno

Domenica 15 marzo 2020. È sera e sto passando gli ultimi momenti a Lima in attesa del taxi che mi porterà all’aeroporto. All’alba del giorno ho ricevuto la chiamata del mio responsabile: “Dovete rimpatriare al più presto… o stasera o domani”. Trauma! Quando si dice svegliarsi male…

L’indomani sono a casa di amici per l’arrivederci, la TV è accesa e tutti stiamo attenti alle parole del Presidente peruviano Martín Vizcarra, il quale sta annunciando l’emanazione del Decreto Supremo n°044-2020-PCM e il relativo stato di emergenza nazionale per “le gravi circostanze che compromettono la vita della nazione in conseguenza dell’epidemia Covid-19”.

Questo provvedimento, che integra l’emergenza sanitaria del Paese, dichiarata per 90 giorni tramite il Decreto Supremo n°008-2020-SA dell’11 marzo, ha inizialmente valenza per 15 giorni (verrà poi prorogato con DS 051-2020-PCM e DS 064-220-PCM) e, in accordo con l’Art. 137 della Costituzione Politica del Perù che definisce lo stato di emergenza, limita i diritti alla libertà, alla sicurezza personale, all’inviolabilità del domicilio, alla libertà di riunione e di transito nel Paese. Il provvedimento contiene anche misure speciali per prevenire e controllare la diffusione del Coronavirus: l’adozione dell’isolamento sociale e la sospensione delle attività lavorative con l’eccezione di quelle relative ai beni e i servizi pubblici essenziali, tra i quali: la fornitura di alimenti, medicine, servizi ospedalieri e di ricovero, di cura alla persona anziana o con disabilità, di servizi energetici (acqua, gas, luce, combustibile), di telecomunicazioni, di pulizia e raccolta dei rifiuti e servizi funerari. Ancora, definisce le situazioni per le quali è possibile muoversi sul territorio, la sospensione delle attività culturali, ricreative e di tutte quelle che “a giudizio dell’autorità competente, possano comportare un rischio di contagio” (Art. 7 del Decreto del 15 marzo), la riduzione del 50% dei servizi di trasporto pubblico e la chiusura delle frontiere. Infine, individua la Polizia Nazionale del Perù e le Forze Armate come garanti dell’implementazione delle misure definite dal seguente decreto (Art. 10 dello stesso).

Con il passare dei giorni e con l’aumentare dei contagi, oltre all’isolamento sociale obbligatorio, lo stato peruviano ha ordinato il coprifuoco; regolato il permesso di transito, dapprima in base al sesso e in un secondo tempo limitando le uscite a un solo membro della famiglia; reso obbligatorio l’uso delle mascherine; promosso il lavoro da remoto; sospeso corsi scolastici e creato la piattaforma d’insegnamento “Aprendo en casa” per agevolare chi è costretto nella propria abitazione. Non solo. Vizcarra ha annunciato che saranno destinati al Ministero della Salute (MINSA) 30 milioni di soles per rafforzare il sistema sanitario, creare nuove strutture ospedaliere di emergenza e acquistare kit diagnostici per il Covid-19, infine ha ideato un pacchetto di riforme sociali ed economiche per gestire e arginare gli effetti del Coronavirus nel Paese, dichiarando che sarà riservato il 12% del PIL per fronteggiare gli effetti della pandemia.

La risposta peruviana all’emergenza sanitaria attraverso queste riforme tempestive, combinate con l’uso della tecnologia e con una dichiarata attenzione alle fasce più svantaggiate della popolazione, ha riscosso elogi dalla stampa, sia nazionale sia internazionale. Ciononostante, forse sarebbe lecito interrogarsi su quanto questi accorgimenti siano fruibili ai più, ma anche su quanto queste misure stiano funzionando realmente. Inoltre, altro punto interessante da approfondire potrebbe essere quello che riguarda il monitoraggio dei contagi, chiedendosi come e se stia procedendo l’analisi dei campioni e quanto i dati ufficiali condivisi possano essere ritenuti verosimili. Per esempio, ci sono regioni che da giorni, per non dire settimane, riportano la stessa cifra di contagiati e questo pare non rispettare l’andamento che il virus ha avuto negli altri paesi finora infettati.

A queste disposizioni si è aggiunta, però, la promulgazione in sordina di due provvedimenti che sembrano contenere un alto potenziale di rischio per i diritti dei cittadini peruviani. Sto parlando delle deroghe concesse alle attività che dipendono dal Ministero di Energia e Miniere (MINEM) e dell’approvazione della Legge n. 31012, “Legge di protezione della polizia”. Nel DS 044-2020-PCM con cui il Perù dichiara lo stato di emergenza, oltre alla limitazione di alcuni diritti fondamentali, sono contenute anche disposizioni circa le attività lavorative permesse in questo periodo. All’articolo 4, infatti, si trovano spiegati i casi in cui è permesso il transito nel territorio nazionale e viene specificato che è rimessa al Ministero dell’Economia e della Finanza (MEF) la possibilità di includere nell’elenco indicato altre attività addizionali dei settori produttivi e industriali non ammesse in un primo momento, le quali siano però “strettamente indispensabili” e non vadano ad “influire sullo stato di emergenza nazionale”.

Avvalendosi di questa clausola, in data 17 marzo il MEF decide quindi di emettere un documento ufficiale (Oficio n° 059-2020-EF/10.01), nel quale concede il carattere di eccezionalità al settore minerario, pertanto la ripresa dell’attività estrattiva. Nella stessa giornata, MINEM emette un comunicato in cui rende nota la decisione del MEF e spiega che questa ha il fine di “poter garantire il funzionamento di operazioni critiche”, il tutto ricorrendo al “personale minimo indispensabile”, in “condizioni di sicurezza, salute e ambiente” e rispettando le norme stabilite nel Piano di preparazione e risposta all’emergenza – ordinato dal DS n° 024-2016-EM – e quelle stabilite dal MINSA per prevenire, contenere e mitigare il contagio da Covid-19. Sebbene il Presidente Vizcarra, durante un suo discorso pubblico in data 20 marzo, abbia segnalato che sarebbero state garantite solo le opere in aree remote e confinate, pare che l’attività estrattiva abbia ripreso a pieno ritmo.

Ci si potrebbe chiedere, innanzitutto, in che misura l’attività mineraria sia da considerarsi di interesse nazionale e possa meritarsi, perciò, questa fulminea eccezione allo stato di emergenza. Come si legge nell’articolo scritto da Juan Aste Daffós e pubblicato sul sito di Red Muqui[1], nel periodo 2015-2019 il settore minerario ha contribuito per il 3% alle entrate fiscali interne totali del Paese e, tra il 2012 e il 2019, ha generato 1,1% di posti di lavoro diretto. Nello specifico, questa occupazione era composta per il 67% da personale reclutato solo temporalmente, spesso proveniente da zone distinte da dove si stavano realizzando le dette attività. Il peso economico delle attività estrattive si rileva invece guardando alle esportazioni, dove l’attività mineraria contribuisce per un 60% dei proventi totali. Apparentemente, quindi, non parrebbe risaltare nessun particolar motivo che giustifichi la tempestività dell’inserimento del settore minerario nell’eccezionalità prevista dal decreto, in quanto non sembrerebbe generatore né di un contributo sociale né economico essenziale in questo momento. In un altro articolo, sempre pubblicato da Red Muqui e scritto da Beatriz Cortez, si legge che nel DS n° 106-2017-PCM che approva il Regolamento per l’identificazione, misurazione e gestione dei rischi degli attivi critici nazionali, le attività critiche vengono specificate come “quelle risorse, infrastrutture e sistemi che sono essenziali e imprescindibili per mantenere e sviluppare le capacità nazionali”. Questa definizione, tuttavia, sembrerebbe stridere con le operazioni estrattive permesse dal MEF e inserite nel comunicato MINEM, in quanto comprendono quasi l’intera filiera del settore minerario: attività di apertura di progetti minerari dichiarati di interesse nazionale, estrazione, trasporto di minerali, lavorazione e fornitura di minerali e trasformati, attività relative alla fase di chiusura delle miniere.

Riguardo poi alla forza lavoro impiegata in queste operazioni e alle misure adottate dalle imprese per tutelarne la salute, nonostante il comunicato MINEM specifichi che ogni impresa adopererà il “minimo indispensabile” dei lavoratori, nello stesso si legge anche che è discrezione del titolare delle concessioni definire l’ammontare di personale sufficiente a garantire il funzionamento delle cosiddette operazioni critiche. Allo stesso tempo, spetta al medesimo garantire le misure sanitarie necessarie per rispondere all’emergenza attuale.  Purtroppo, conseguentemente al provvedimento, non sono tardate a circolare le prime denunce dei dipendenti, soprattutto attraverso il sindacato dei lavoratori del settore minerario, la Federazione nazionale dei lavoratori minerari, metallurgici e siderurgici. Già nei primi giorni successivi alla comunicazione di MINEM, il personale di alcune imprese ha dichiarato di continuare normalmente i lavori, nonostante lo stato di emergenza nazionale. Altri hanno reso noto di esser obbligati a presentarsi sul luogo di lavoro e a vivere negli accampamenti senza che possa essere rispettata la distanza di sicurezza, per timore di essere licenziati. Altri, ancora, hanno denunciato oltre a un’inottemperanza delle misure di prevenzione sanitaria, anche una mancata funzione di controllo e vigilanza nei casi in cui tra i lavoratori ci fossero persone con una sintomatologia di sospetto Covid-19 o tra il personale che è entrato in contatto con chi è risultato positivo al virus.  Le ultime notizie sembrano confermare questi esposti. In data 13 aprile si legge, ad esempio, che la miniera Antamina – da cui si estrae rame e zinco -, una delle prime a essere denunciata dai lavoratori, sospenderà i lavori per almeno un paio di settimane, in quanto si sono riscontrati casi di positività al Coronavirus. Nella miniera stanno lavorando diverse migliaia di persone.

Molti giuristi, avvocati e organizzazioni non governative hanno commentato che il permesso concesso al settore minerario per continuare le proprie attività risulta discriminatorio e incompatibile con il diritto all’uguaglianza lavorativa ed economica, si scontra con lo stato di emergenza e pone in pericolo i diritti alla vita e alla salute, non solo dei lavoratori delle grandi imprese minerarie, ma anche del resto della popolazione peruviana, che può essere contagiata da questi ultimi a causa della loro alta mobilità che aumenta il rischio di diffusione del virus[2].

Un altro importante provvedimento dello stato peruviano riguarda la legge di tutela legale della Polizia Nazionale del Perù (Legge n° 31012), approvata lo scorso 28 marzo e fin da subito diventata oggetto di osservazioni e critiche da parte di organizzazioni peruviane non governative, tra le quali quelle che afferiscono alla Red Muqui, e governative, quali il Ministero della Giustizia e dei Diritti Umani, il Potere Giudiziale, la Difensoria del Pueblo – l’ombudsman, o difensore civico, peruviano -, ma anche di istituzioni internazionali, quali la Corte Interamericana di Diritti Umani (CIDU) e l’ONU. Ciò che viene contestato di questa legge è l’incostituzionalità della norma, la sua violazione del diritto internazionale e la possibilità di aprire spazi di impunità per il personale del corpo di polizia nel caso ricorra all’uso della forza in maniera indiscriminata, abusandone. Accuse forti, cerchiamo di capirne il perché tramite i documenti redatti dall’area legale di Red Muqui, dell’IDL e dell’associazione Servicios Educativos Rurales (SER).

All’Art. 1 della Legge n° 31012 si trova l’oggetto della stessa: “Concedere protezione legale al personale della Polizia Nazionale del Perù che, nell’esercizio regolare della sua funzione costituzionale, faccia uso delle sue armi o mezzi di difesa, in forma regolamentare, causando lesioni o morte”. Sempre nello stesso articolo si trova: “In queste circostanze, all’esercitare il suo diritto alla legittima difesa, personale e della società, stabilito nella legge, il principio di ragionevolezza dei mezzi sarà interpretato a favore del personale delle forze dell’ordine, stabilendo meccanismi processuali che evitino di pregiudicare il suo principio di autorità”. I commenti degli avvocati e dei giuristi delle suddette associazioni menzionate sottolineano come, già in questo inciso, si cerchi di compromettere uno dei principi basilari di uno stato democratico, vale a dire quello dello stato di diritto e, quindi, della separazione dei poteri. I giudici, si legge nei vari documenti delle ONG, dovendo propendere in favore delle forze dell’ordine, si trovano così limitati nelle loro funzioni e violati nella loro indipendenza.

Ancora, guardando alle modificazioni del Codice Penale che la Legge n° 31012 detta all’Art. 4 – con il quale viene inserita la proibizione a disporre la detenzione preliminare giudiziale e la prigione preventiva del personale della Polizia Nazionale – e all’Art. 5 – che modifica il Testo Penale, asserendo che il medesimo personale e quello delle Forze Armate è esente di responsabilità penale, qualora causi lesioni o morte durante lo svolgimento della “sua funzione costituzionale”, inserendone quest’ultima ambigua causale -, i difensori dei diritti umani dichiarano ci si trovi di fronte a una violazione di un altro diritto fondamentale, quello all’uguaglianza di fronte alla legge. Infine, la norma viene ampiamente criticata e ne viene chiesta l’abrogazione in quanto non definisce chiaramente quali siano le “funzioni costituzionali”, lasciando molti vuoti e spazi d’interpretazione, e, a causa del fatto che questa cancelli il principio di proporzionalità dell’uso della forza, definito nell’Art. 200 della Costituzione Politica peruviana – nel quale si sancisce che le misure restrittive messe in atto dalle Forze Armate e Polizia debbano essere “ragionevoli” e “proporzionali”. Anche importanti organizzazioni internazionali come l’ONU – tramite il suo rappresentante nell’America del Sud, Jan Jarab – e la CIDU si sono prontamente mosse per dichiarare che questa nuova legge possa aprire a spazi di impunità per il personale delle forze dell’ordine e non coincida con gli standard internazionali dei diritti umani e con quelli che regolano l’uso della forza, chiedendo urgentemente al Congresso peruviano di esaminarla, adeguandola.

Durante gli 8 mesi di servizio come Corpo Civile di Pace nell’associazione legale Derechos Humanos y Medio Ambiente (DHUMA) di Puno, ho avuto modo di approfondire lo studio di alcuni casi in cui la popolazione locale, facente parte di comunità contadine andine quechua o aymara, si è trovata in conflitti sociali. Per la peculiarità dell’appoggio legale offerto dalla mia ONG, questi scontri erano tutti di carattere socio-ambientale e avevano come comune denominatore l’esistenza di attività estrattive in territori comunali, attività che non erano benvolute dalle comunità native in quanto ponevano in rischio il loro ecosistema e le loro vite.

Il rapporto di fine anno 2019 della Difensoria del Pueblo sui conflitti sociali nel Perù sembra confermare una correlazione diretta tra le attività minerarie e il malcontento della popolazione, in quanto, dal 2007 a oggi, il 69% delle ostilità sociali è causato da conflitti socio-ambientali, di cui il 65,4% è relazionato alle attività estrattive. Sempre secondo la stessa istituzione, quasi un conflitto sociale su due (45,1%) deriva da uno scontro tra società civile e impresa mineraria (e, sarebbe il caso di aggiungere, stato). Oltre a ciò, approfondendo la protesta sociale nel Perù, tra i modi utilizzati dallo stato per limitare questo diritto essenziale in ogni paese che si definisca democratico, compare proprio l’emanazione di stati di emergenza specifici per l’area dove si trovino situazioni di conflittualità connesse a lavori minerari, con la conseguente limitazione di diritti, sancita come già menzionato nell’Art. 137 della Costituzione peruviana, e l’impiego della Polizia Nazionale e delle Forze Armate peruviane. Esplicativo è il fatto che la stessa CIDU, nel report dal titolo Protesta y Derechos Humanos, confermi che in questa regione americana sovente si ricorra a emanazioni di stati di emergenza in aree conflittuali allo scopo di reprimere le proteste, specificando poi che queste dichiarazioni dovrebbero tuttavia presentarsi solo in casi realmente eccezionali, vale a dire in situazioni che attentino seriamente la vita della nazione (e questo, ovviamente, è il caso dello stato di emergenza attuale nazionale per motivi sanitari).

Da un articolo scritto da Rodrigo Lauracio Apaza dell’area legale di Red Muqui, si apprende che i decessi registrati in situazioni di protesta sociale nel territorio peruviano, dal 2002 a oggi, sono 299 comprendendo manifestanti, difensori dei diritti umani ma anche personale della Polizia e delle Forze Armate. Una media di 16 persone all’anno. Più specificatamente, durante il governo di Alan García (2006-2011) il picco massimo è arrivato a segnare 193 morti, i quali diminuiscono a 3 guardando ai due anni di presidenza con Vizcarra. Questa cifra è senz’altro esigua se confrontata con i dati drammatici di altri paesi latini – quali ad esempio di Colombia, Brasile o Guatemala – eppur importante per uno stato democratico.

L’atteggiamento dimostrato dal governo peruviano nei confronti degli interessi delle grandi industrie minerarie, il nesso tra attività estrattive e i conflitti e le proteste socio-ambientali della popolazione, e la legge di tutela legale delle forze dell’ordine approvata in un contesto di crisi nazionale a causa di un virus pandemico invisibile, devono mantenere vigili tutti coloro che lavorano nella salvaguardia dei diritti umani.

[1] Rete di 29 associazioni peruviane impegnata nel promuovere e difendere i diritti delle comunità e della popolazione peruviana, soprattutto in relazione all’attività estrattiva, nella quale afferiscono molte delle ONG dei progetti CCP in Perù inclusa quella per la quale ho collaborato in questi mesi.

[2] Juan Carlos Ruiz Molleda nel sito di Instituto de Defensa Legal (IDL) afferma che, nonostante la Carta Costituzionale peruviana riconosca le libertà economiche (Art. 59) e il ruolo dello stato nel promuovere lo sviluppo economico (Art. 44), porre questi in cima alla lista delle priorità nazionali in questo momento di emergenza sanitaria può minare seriamente altri diritti fondamentali, quali quello alla vita (Art. 2.1) e alla salute (Art. 7), entrando in contrasto con “il fine supremo della società e dello Stato”, definita dall’Art. 1 dello stesso testo: la difesa della persona umana e il rispetto della sua dignità.

Link utili per approfondire:
https://muqui.org/
https://idl.org.pe/
http://www.noticiasser.pe/
https://www.defensoria.gob.pe/
https://fntmmsp.org.pe
https://www.gob.pe/coronavirus

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