Ti scrivo per cercare di fermare i pensieri che, in questi giorni di distanza forzata dalle persone e dalle solite occupazioni, affollano la mia mente.
Ogni mattina quando mi alzo da una ventina di giorni a questa parte provo una serie di sensazioni nuove. Mi sento profondamente meravigliato per sentire attorno a me una strana ma piacevole calma. Nessuna macchina per la strada, l’aria pulita che entra nella stanza mentre ascolto stupito quanto gli uccelli che popolano gli alberi del giardino sembrino stranamente più numerosi. E mi viene da pensare che mai avrei immaginato che nel giro di qualche giorno un’intera popolazione si sarebbe dovuta fermare.
Tutti, dal Nord al Sud, studenti o anziani. E in questa strana democraticità del virus, sento che in fondo avevo bisogno di tirare il fiato. Credo che tutti magari in misure diverse avevamo il bisogno di fermarci. Di interrompere per un attimo la frenetica corsa verso le nostre mille scadenze e progetti. Come a ricordarci che non siamo sempre noi a decidere della nostra vita e che siamo di fatto vulnerabili. Sento il desiderio di chiedermi come sto e come sto in relazione alle persone a cui voglio bene. Sento riemergere a galla le paure legate al futuro e l’ansia di quello che mi potrebbe aspettare. Mi chiedo se sarò in grado di sfruttare questo tempo che mi è dato in modo profittevole. Allo stesso tempo riconosco che questa situazione scomoda non è per niente facile. Viene richiesto a tutti di fare delle rinunce che ogni giorno sembrano limitarci di più. Inoltre ora il tempo sembra quasi incapace di scandire le giornate come prima. Prendo il respiro, mi provo a concentrare e a lasciare fluire liberi i pensieri; è arrivato il tempo di chiedermi: come sto?
Confesso, faccio fatica a tornare a una convivenza con i genitori quando la mia testa era già proiettata verso l’esperienza dei Caschi Bianchi che da mesi mi immaginavo. Sento la fatica di fermarmi e riprendere quei ritmi che avevo perso con i miei genitori, quelle abitudini che da anni avevo perso e che ora invece trovo come unica arma per dare un senso a questi giorni.
Nello stesso tempo, quando penso alle difficoltà che possono esserci nel dover limitare gli spostamenti o dover riorganizzare la propria quotidianità, la mia mente va a chi questa cosa la sta vivendo da ormai tanti anni. Con Operazione Colomba ho vissuto un’esperienza come Corpo Civile di Pace nei campi profughi siriani in Libano. Ho avuto la possibilità di condividere un pezzetto della vita con chi ha dovuto lasciare la propria casa per sfuggire a una guerra insensata che perdura da nove anni. La mia mente mi riporta tra i miei amici Siriani che non possono lasciare la propria tenda fatta di teloni di plastica e stufe a gasolio e dove sono costretti a convivere ogni giorno con la paura di essere arrestati e rimandati forzatamente in Siria.
Vivendo come “ospiti” in un paese ostile a loro, molti Siriani sono costretti a vivere in dei campi informali dove diversi anni fa è iniziata per loro come una lunga quarantena. Trovare la dignità del lavoro, o del cibo per i propri figli, diventa qualcosa di assai difficile e illegale, di illegale secondo delle leggi inumane. La loro esistenza si tramuta mano a mano in quella che di fatto è un vivere in una prigione a cielo aperto.
Ritorno così a pensare alla nostra condizione, rinchiusi nelle nostre case con il rischio di vedere questo tempo passare senza un significato preciso. Tuttavia penso anche che alla fine tra qualche mese questa situazione si risolverà. Noi usciremo dalle nostre case e ritorneremo a vivere le nostre vite normali, veloci, fatte di scadenze, spritz con gli amici, e spero, di porti più aperti.
Infine, caro sognatore di pace, ti scrivo perché so che capisci il desiderio di dare voce a chi non ne ha. Fa che ogni momento vissuto con chi è povero di pace possa diventare una testimonianza da portare a tutto il mondo e che questo silenzio assordante delle nostre infinite giornate possa far risuonare nella mente le crudeltà della guerra e il sogno di una pace più duratura.
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