La signora Silvina è stata la prima paziente delle periferie che ho conosciuto. Non era di certo una giovincella: 88 anni suonati, artrosi avanzata in tutte le articolazioni, ma il sorriso contagioso e l’umorismo di una bambina.
Quando mi recavo in casa sua ero sempre accolta dalle due montagne di immondizia che contrassegnavano il breve percorso per giungere al suo ingresso: erano i rifiuti della sorella che lavora vendendo la plastica raccolta, e con questo mantiene da sola la sua famiglia. A vederla fa un po’ paura: è sempre aggressiva, zoppica in delle scarpe in cui la suola è solo un lontano ricordo e si veste a cipolla con vestiti di seconda mano troppo grandi che, a volte, finiscono per caderle a terra. La signora Edilberta è l’unico parente che Silvina abbia qui. È proprio questo che ha reso molto più difficile la sua presa in carico.
Qui a Huncayo se sei un anziano, e non hai un compagno, o i figli lontani, non hai nulla, sei solo al mondo, e sono fiera che nel nostro piccolo sia proprio di queste realtà che ci occupiamo. La casa della Signora Silvina non era più sua: l’aveva venduta ad una vicina a un prezzo molto basso in cambio avevano concordato che la lasciasse rimanere nel terreno e che l’accudisse fino alla sua morte. Accordo non mantenuto.
L’abitazione è una stanza costruita in adobe, una sorta di mattone di fango, dentro c’è un letto, due o tre sedie rotte, alcune galline e un cane rabbioso, ma corrompibile con qualche briciola di pane.
Ad Agosto la Signora Silvina è caduta da una delle sedute e si è rotta il femore: nemmeno lo sapeva, lo ha scoperto quando l’abbiamo portata all’ospedale una settimana dopo. A quel punto era sola e impossibilitata a fare qualsiasi cosa. Nei casi di abbandono i dottori tendono a non operare per i rischi di complicanze che una scarsa condizione igienica e un’assistenza non adeguata possono recare al processo di guarigione.
Rendersi conto giorno dopo giorno che si è in un sistema in cui praticamente non si può migliorare la situazione di una persona dà un grande senso di impotenza: per quanto il personale preposto all’assistenza, come me, sia indubbiamente una risorsa, farsi carico di una vita va molto al di là delle possibilità economiche fisiche e temporali che riusciamo ad avere. Soprattutto, la situazione che non era tollerabile era che una persona in quello stato non fosse accettata dall’ospedale, anche solo per farla migliorare un po’ e dare un attimo di tempo all’osso di riformarsi, anche male; stando sola Silvina non riusciva ad accettare di stare a letto, né di avere il pannolone dove fare i bisogni. Al secondo tentativo di ammissione, dopo giornate intere passate tra mille attese, corse in taxi con la dolorante paziente stesa nel bagagliaio, lunghi corridoi a portare qua e là la barella, che nell’ospedale di Huancayo si noleggia, la signora è entrata nel reparto di chirurgia ortopedica con la promessa di un’operazione imminente di protesi d’anca. Qui non è facile affrontare la burocrazia necessaria per questo evento. Per quanto esista il SIS che si occupa della copertura sanitaria molte cose non sono comprese, per le protesi sono previste lunghe attese, e il sangue necessario nella chirurgia lo si deve donare a seconda delle richieste del medico.
A Silvina in ospedale tenevano sotto controllo il dolore, ma la sua voglia di lottare scemava giorno dopo giorno. Inoltre a quel punto anche i pochi residui di amici e vicini erano spariti e, per poter stare dietro alle richieste farmaci e materiali di igiene necessari ci turnavamo solo noi volontari della parrocchia, garantendole una o due visite giornaliere. Arrivato il giorno dell’operazione, questa è saltata per un banale rilassamento, fatale in sala operatoria.
Prima di stare male il suo lavoro era fare le bordature a mano per i vestiti da festa locali, attività di grande precisione ed estrema perizia, “un lavoro a perfetta regola d’arte”, si diceva, una prerogativa quasi assoluta di queste zone della sierra Peruviana. Personalmente ammiro tantissimo questo tipo di competenze, che in Italia vengono riconosciute, mentre in Perù spesso non si rendono nemmeno conto dell’altissimo valore dei loro manufatti. Quando a una persona con queste caratteristiche si toglie la possibilità di essere indipendente, di fare ciò che ha fatto per tutta la vita a causa anche delle artrosi spesso collegate a carenze alimentari, è comprensibile un calo della forza e della voglia con cui affronta ogni giornata.
La settimana scorsa la Signora Silvina è morta. Al suo funerale era pieno di gente: quattro o cinque nipoti, tanti vicini, tutti tristi, tutti con buone parole, però la verità è che quando era in vita non c’era nessuno. Non c’era nemmeno lo stato, figurarsi se potevano esserci quelle persone, che probabilmente vivono in una condizione economica molto simile.
Questa signora, il primo sguardo che ho incrociato appena inserita in questo progetto, mi ha lasciato tanto. Soprattutto mi ha lasciato un grande senso di colpa e tanti dubbi morali rispetto alla mia convinzione di paramedico dall’occidente per cui andare all’ospedale e farsi curare sia il meglio anche per un caso del genere, in cui pare che l’attaccamento per la vita sia strettamente legato al rimanere presso il suo focolare.
Mi ha lasciato la consapevolezza che si può sorridere anche non avendo niente. Mi ha fatto provare quello che significa avere voglia di dedicare il proprio tempo libero all’altro, e affezionarsi anche con la consapevolezza di saperne poco o nulla. Mi ha insegnato cosa vuol dire sapere di avere una parte di responsabilità su qualcuno di più debole e indifeso, di cui è facile approfittarsi lasciandolo nel disagio.
Bisogna farsi valere e non stare mai zitti: non significa disturbare, ma dargli voce. Ho parlato a lungo di Silvina alla mia famiglia quando sono tornata in Italia: mi hanno lasciato un pupazzo da portarle, nella sua tomba c’era anche lui. Le infermiere hanno raccontato che quando stava sola le piaceva giocarci.
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