Da quando sono arrivata qui nelle Filippine, una delle cose che mi affascina quotidianamente è la simbiosi in cui essere umano e natura convivono.
La posizione nei pressi della cintura di fuoco del Pacifico e il clima tropicale fanno delle Filippine un’area frequentemente colpita da terremoti e tifoni, di cui alcuni anche molto violenti, come il tifone Yolanda, che nel 2013 coinvolse più di 16 milioni di persone con più di 6000 morti.
Allo stesso tempo le Filippine sono una delle zone più ricche di biodiversità al mondo. Eppure la deforestazione di intere isole per creare campi da coltivare con mais e riso è spesso uno dei pochi modi di sopravvivere per le comunità locali. Seppellire o bruciare rifiuti è a volte l’unico modo di liberarsene perché troppo spesso non ci sono sistemi di raccolta idonei.
Climate Watch Data osserva che nel 2014 le Filippine hanno prodotto solo lo 0,36% delle emissioni mondiali di gas serra (il 34% arriva dalla Cina, il 19% dagli Stati Uniti e l’11% dall’Unione Europea) ma sono al quinto posto dei Paesi più esposti alla crisi del cambiamento climatico. Si stima che nei prossimi anni saranno colpite 703 città su un totale di 1610, Roxas City, la città filippina sull’isola di Panay in cui sto svolgendo il servizio civile, compresa.
A livello mondiale alcune delle parole che sentiamo ripetere più spesso negli ultimi mesi dai media sono “crisi climatica” e “surriscaldamento globale”. Sappiamo tutti cosa sono i “Fridays for future”, anche dall’altra parte del mondo. Eppure, vivendo qui, si ha l’impressione che queste lotte siano lontane e distanti dal mondo reale, che sarà la natura a decidere quali provvedimenti prendere. L’essere umano deve solo imparare ad accettarne le conseguenze e a trarne beneficio come meglio può.
Qualche settimana fa, insieme alla mia collega Elisa e alcuni colleghi del partner locale, la Caritas dell’arcidiocesi di Capiz, CASAC, con cui Caritas Italiana collabora qui, siamo andati a visitare il villaggio di San Juan. In questa occasione, seduti a tavola mentre mangiavamo dolcetti locali e banane, abbiamo iniziato a parlare della crisi climatica e del significato che ha per loro.
Il barangay captain (il capo villaggio), Rolly Hunop, ci ha introdotto a El Niño, spiegando che si tratta di un fenomeno climatico periodico che provoca un forte riscaldamento delle acque dell’Oceano Pacifico Centro-Meridionale e Orientale (America Latina) nei mesi di dicembre e gennaio, in media ogni cinque anni, con un periodo statisticamente variabile fra i tre e i sette anni. Questo provoca inondazioni nelle aree direttamente interessate, ma anche siccità nelle zone più lontane da esso e altre perturbazioni che variano a ogni sua manifestazione.
Ci racconta del periodo di siccità che stanno attraversando, nonostante sia ora la stagione delle piogge. Di come sia anormale la frequenza delle piogge negli ultimi anni e di come ad acquazzoni molto forti di circa un’ora seguono svariati giorni di sole e siccità. “Noi eravamo abituati ad almeno 3-4 settimane di piogge ininterrotte e molto meno potenti.”
Stanno aspettando quest’acqua per poter dare il via alla semina, che normalmente avviene a fine agosto. Aspettano da più di un mese ormai e diventa sempre più concreta la paura che quest’anno non saranno in grado di seminare in tempo, terminando le scorte di riso prima della prossima raccolta. Diventa anche sempre più concreta la paura degli acquazzoni forti che provocano sempre più spesso potenti inondazioni. Tutti i membri della comunità seduti al tavolo intorno a noi annuiscono preoccupati alle parole del barangay captain e iniziano a ricordare le conseguenze del tifone Hayan, conosciuto nelle Filippine come tifone Yolanda, uno dei più forti cicloni tropicali mai registrati. Le conseguenze del suo passaggio, soprattutto nella regione Visayas in cui ci troviamo, sono state catastrofiche.
Nanay Josephine ci spiega che nel 2013 non c’erano centri di evacuazione vicini e la maggior parte di loro si è riunita nelle case più stabili del villaggio.
“Neanche la chiesa ha retto, ne è crollata metà e non abbiamo potuto usarla come rifugio.
Il vento forte è durato in tutto circa 5 ore, dalle 10 del mattino alle 3 del pomeriggio. Noi non eravamo preparati a una tale distruzione, nessuno di noi aveva memoria di esperienze simili. Al termine di queste ore passate in casa a pregare non era rimasto praticamente nulla, il 95% del villaggio era stato spazzato via. Però nel giro di una settimana avevamo già ricostruito la maggior parte delle abitazioni e molti di noi erano tornati a lavorare i campi.” Sorride e guarda gli altri come a chiedere conferma.
Continua Nanay Sherley raccontando che ora ascoltano le previsioni meteorologiche regolarmente senza sottovalutare nulla e dando importanza ai dati forniti da PAGASA (l’amministrazione dei servizi atmosferici, geofisici ed astronomici delle Filippine).
“Ci prepariamo con anticipo all’arrivo di un tifone. Teniamo una riunione di emergenza 3 giorni prima e prepariamo un piano per la sicurezza. Ad esempio, una delle prevenzioni consiste nel mettere al sicuro tutto il riso e immagazzinarlo all’asciutto in dei sacchi di plastica, nel 2013 avevamo perso il raccolto dell’intero villaggio. Ora sappiamo di dover potare per tempo gli alberi a ridosso delle case per evitare che i rami cadano sui nostri tetti. Sappiamo anche quali sono i beni di prima necessità da tenere pronti nel caso di un’evacuazione.”
Torna a parlare il barangay captain, spiegando che uno dei problemi maggiori in seguito al tifone Hayan, oltre al raccolto perso, è stata la mancanza di fondi economici. L’unico modo per la comunità di ricostruirsi è stato quello di chiedere dei prestiti alla Card bank, una banca rurale orientata alla micro-finanza nelle Filippine. “Sono prestiti a breve termine, della durata dai 4 ai 6 mesi con un interesse che va dal 5 al 10% e che i richiedenti riescono normalmente a ripagare con il nuovo raccolto. Avendo però perso tutto, ci sono molte famiglie che stanno tutt’ora continuando a rinnovare questi prestiti.”
Alla richiesta di spiegare qual è secondo lui il motivo di questi cambiamenti climatici che hanno portato alla crisi contemporanea, risponde senza esitazione che è la distrazione dell’uomo ad aver causato tutto questo. Racconta di come tutta la zona intorno al loro villaggio sia stata deforestata per creare campi di riso e mais nel corso dello scorso secolo. Nonostante il governo locale abbia da qualche anno iniziato una politica di riforestazione, le conseguenze rimangono visibili. “Non è solo un discorso di anidride carbonica e delle conseguenze dell’effetto serra, qui l’assenza di alberi nelle montagne comporta inondazioni a valle dato che non ci sono più barriere naturali a proteggerci dai fiumi che straripano.”
Sempre in riferimento ai fiumi, ci parla dello scioglimento dei ghiacciai e dell’innalzamento del livello del mare, ma quando gli chiediamo quali saranno secondo lui i paesi maggiormente afflitti dalla crisi climatica esita a pronunciare “Filippine”. Ho la sensazione di averglielo tirato fuori io e di aver in qualche modo fatto loro una violenza nel voler evidenziare il fatto che saranno tra i primi a dover affrontare ulteriormente la maggior incidenza di eventi catastrofici come frane e alluvioni, ma non solo.
Secondo le Nazioni Unite sono a rischio anche la democrazia, lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani. “Rischiamo un apartheid climatico dove i ricchi pagano per fuggire dal surriscaldamento, dalla fame e dai conflitti, mentre il resto del mondo rimane lì a soffrire”, ha detto Philip Alston, relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà e i diritti umani.
“Questa crisi dovrebbe convincere gli stati a far fronte a diritti economici e sociali a lungo ignorati, come l’accesso al cibo, al sistema sanitario e ad un lavoro decente”, si legge nel report. “Il cambiamento climatico è una questione di diritti umani proprio per l’impatto che ha. Spetta in primis agli stati tutelare i diritti umani ed evitare violazioni. Uno stato che non adotta misure fattibili per ridurre le emissioni di gas serra è uno stato che non adempie ai suoi obblighi”.
Per un momento rimaniamo tutti in silenzio prima di porre l’ultima domanda, quella che tutti noi nel nostro piccolo dovremmo farci ma che troppo spesso ignoriamo per pigrizia o scomodità.
Come possiamo agire tutti noi, insieme come comunità, ma anche individualmente, ognuno nella propria quotidianità?
“Come comunità dovremmo smettere, ad esempio, di bruciare i rifiuti.”
Pratica molto comune e spesso unica soluzione alternativa al seppellire i rifiuti in discariche abusive. Ci spiega che nonostante ci sia nelle Filippine una legge nazionale che regola lo smaltimento dei rifiuti dal 2000, la RA9003, i governi locali non adottano misure adeguate dati i costi elevati e l’assenza di controlli legislativi. Solo dal 2017 è stato istituito a Capiz (la provincia di appartenenza del Barangay San Juan) un dipartimento per la salvaguardia dell’ambiente e lui, eletto da meno di un anno, sta iniziando ora a pianificare la costruzione di un sistema di raccolta differenziata idoneo al piano regolatore decennale stabilito della provincia.
“Individualmente si potrebbe coinvolgere la comunità nel quotidiano, iniziando dal ridurre l’utilizzo di plastica monouso, magari istituendo dei zero plastic days oppure proponendo alternative alluso della plastica durante le assemblee comunali. Ad esempio, potreste tenere una presentazione durante la prossima assemblea comunale e spiegarci in modo più approfondito i temi di cui abbiamo appena parlato, sono sicuro che vi ascolteranno tutti con molto interesse”, conclude il Barangay captain e noi accettiamo volentieri.
Preparare quella presentazione, fare attenzione alla comunicazione rivolta ad un pubblico che ha alle spalle esperienze diverse dalla mia e che subirà le conseguenze di questa crisi da vicino, mi ha obbligato ad uscire fuori dagli schemi a cui sono abituata a fare riferimento quando penso alla natura, all’ambiente, a ciò che rappresentano per me che sono nata dalla parte fortunata del globo terrestre.
Sapere che nel corso dei prossimi 30 anni la maggior parte dei luoghi di Roxas City a cui sono affezionata saranno sott’acqua e che la casa in cui sto vivendo sarà circondata dal mare, nonostante oggi si trovi a più di 5 chilometri di distanza, mi spaventa. Inevitabilmente, mi chiedo cosa sarà di tutte quelle persone che non sono qui solo di passaggio come me e sento sempre più concreto il bisogno di fare qualcosa.
C’è però una cosa che sto imparando a tener presente e che il popolo filippino mi sta insegnando: noi non abbiamo il potere di salvare il pianeta. La terra si salva da sola. Lo sta già facendo. Il nostro compito è quello di amarla, di rispettarla e dobbiamo continuare a ricordarci a vicenda cosa questo significa, dei nostri atteggiamenti da cambiare e dello stile di vita da adottare. Dobbiamo iniziare a parlarne sempre più spesso, consapevoli di chi siamo e dove viviamo.
Non sta a noi difendere la terra, sta a noi scegliere se avere, su questo pianeta, un futuro.
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