Colombia Corpi Civili di Pace

Nel silenzio del volo del colibrì

Riconoscere l’essere nella persona che hai di fronte

Scritto da Melisa Agostino Ninone, Corpi Civili di Pace PRODOCS – FOCSIV a Medellin

“Terra di passo, sogno ricordo di un cammino nessuno sa dove ti porta” (cit. “Africa” Davide Prezzo)

Dopo qualche mese le mie gambe cominciano ad abituarsi alle strade ripide di questa regione. Inizialmente mi lasciavano indolenzita nonostante mi piaccia camminare, durante i primi periodi sentivo la fatica anche solo nel fare la breve salita che mi portava a casa. Di questo mi rendo conto sul sentiero sommerso dalle radici degli imponenti alberi di Parque Arvì, che l’una sull’altra vanno a formare una scalinata naturalmente legnosa. La terra è particolarmente rossa, nonostante le mie carenze di conoscenza tecnica nel campo, so che questo è segno di una forte presenza di ferro, si attacca facilmente ai vestiti e alle scarpe e caratterizza la maggior parte del suolo da queste parti.

Orgogliosa del mio riuscire a tenere un buon passo, un fiore molto comune da queste parti cattura la mia attenzione: “Ojo del Poeta”. Tradotto come l’occhio del poeta, si presenta di colore arancione intenso segnato da un cerchio nero profondo al centro da cui prende il nome. È una specie strisciante di origine africana che si disperde nei boschi, portata qui a scopo ornamentale; ma a causa del clima esotico la pianta ha assunto un comportamento anomalo diverso da quello che normalmente assume nel suo habitat naturale, diventando molto invasiva e danneggiando l’ecosistema del parco. Esteticamente una pianta affascinante: il suo manto regala agli alberi un elegante vestito verde da cui spuntano i suoi fiori colorati.

È in questo momento che mi accorgo che Luis è andato parecchio avanti e rischio di perderlo. Così si chiama la mia guida, un uomo sulla cinquantina inoltrata, abbastanza tozzo, ma con una destrezza che nemmeno io a trentanni riesco a pareggiare nel muoversi in mezzo alle cortecce e con quella dolcezza nel parlare che solo i “paisa” riescono ad assumere. I cosiddetti “Paisas” sono una connotazione socio-culturale e non solo geografica. Identifica chi proviene da un raggruppamento di regioni di Antioquia, ma sopratutto un gruppo di persone con usi e costumi peculiari, che discende da gente lavoratrice, estroversa, legata alla terra e alla famiglia. Famoso per le sue capacità commerciali, il paisa si contraddistingue per la sua gentilezza e disponibilità.

Sono proprio i suoi abitanti che fanno di Medellìn una città dalle mille storie che si rivela nelle sue contraddizioni. Il centro storico ci regala i canti dei venditori ambulanti che spingono i loro carri sulle vie principali, accanto ai flussi di persone affrettate tipico delle metropoli. L’ estensione di questa città colpisce sicuramente a vista d’occhio, sviluppata su sette crinali, l’occhio fugge in alto, dove le invasioni hanno fatto di Medellìn quella che è oggi. Per invasioni si intendono quei quartieri costruiti illegalmente dalle popolazioni sfollate da zone di conflitto, dalla costa del Pacifico, al Chocò, al Cauca soprattutto. Per lo più case precarie, fatte con mattoni rossi e tetti in lamiera, costruite nei posti più improbabili.

È qui che si trova la maggior parte degli orti comunitari in cui ho deciso di dare il mio contributo. Sono dodici, tutti situati in quartieri con un importante passato di conflitto. Questi spazi dedicati all’agricoltura sono pensati per dare alla comunità un’occasione di incontro, oltre a promuovere un’alimentazione più sana de equilibrata, riportando al contatto con la terra una comunità con i membri più diversificati, che si ritrovano a condividere e vivere lo stesso spazio. Dalla finestra della mia cucina si intravede una scalinata illuminata, dai colori che vanno dall’azzurro, al verde al giallo. La scorgevo nella vallata opposta alla mia e da tempo mi chiedevo che cosa fosse.

Uno degli orti in cui vado con maggior frequenza si trova proprio lì, poco lontano dalla fermata del metrocable Las Torres, nel quartiere di Tinajas. L’orto di Tinajas è uno dei tanti orti che Salvaterra, la fondazione con cui collaboro, segue in città. È qui che conosco Elisio, un uomo credo sulla sessantina, moreno con un accento tipico costeño, di quelli che anche se lo spagnolo lo conosci bene, qualche parola la perdi comunque per strada. Elisio mi ha colpito, parla stretto, poco e spesso accompagna il discorso con il gesto tipico della bocca che spinge le labbra in avanti in modo marcato per segnalare o enfatizzare. Desplazado, vive a Medellìn dal 2011, veste sempre in tonalità marrone e la sua camminata ha qualche nota discordante. Le comunità degli orti non sono facili, spesso paradossali, raggruppano la gente più svariata, sia dal punto di vista di classe sociale che dal ruolo sociale, che credo non coincidano.

In tutto questo movimento cittadino gli spazi vuoti risuonano di più. Abituati a vivere in maniera sempre piena, a riempire ogni momento, non riusciamo più a far cantare gli spazi bianchi, confondendo l’ampio con il vuoto. Lontani da ciò che è familiare, dal cibo, alle musiche, ai paesaggi, questi momenti ci sembrano amplificati. È proprio quando riesci ad ascoltare la solitudine, senza soffocarla, che lei canta. È in questi momenti che riesco a trasformare il flusso delle emozioni e sensazioni della giornata che altrimenti scorrerebbero via, in qualcosa che mi fa crescere con il cuore e con la mente. In un mondo che galleggia su numeri e statistiche, non si parla spesso del nome che portano i diagrammi.

La Colombia conta quasi otto milioni di sfollati interni, a causa del conflitto armato e, non dimentichiamo, la grande lotta per le sue risorse naturali; ma questi milioni di sfollati hanno un nome. Possiamo chiamarli Elisio, Otilia, Alexandra, Esteban, Blanca, Magdalena, Amada, Luz…questi nomi hanno una storia, una propria individualità, hanno dei sogni. Sono questi elementi che ritengo importanti per abbracciare davvero il mio ruolo qui, per potere riconoscere l’essere nella persona che mi sta di fronte o che mi sta accanto.

Sono ormai giunta alla fine della mia camminata nel parco, quasi tre ore in compagnia di Luis. Gli statunitensi che sono con noi cercano di immagazzinare qualche nuova parola in spagnolo, le uniche due colombiane sembrano un po’ provate dalla camminata, i francesi invece sono ancora in piena carica; ci salutiamo. Esco dal bosco e prendo la strada principale, faccio qualche parola con gli artigiani, hanno sempre una storia da raccontare e il mio accento non mi fa passare certo inosservata. Mi fermo su un lato della strada per aspettare l’autobus che scende in città, e dritto davanti a me si apre un’altra distesa di “ojo del poeta”.

Penso al mio sentire la differenza nel relazionarmi con le persone qui, cercando di mostrare più che di dimostrare. Nelle mie mattine mentre prendo il caffè, un ottimo “tinto” colombiano che ho imparato a cuocere nel padellino, mi intrattengo a guardare gli uccelli che fanno visita al grande albero davanti alla mia finestra. Sono molti, e sempre diversi. Non a caso la Colombia conta con la maggior varietà di specie al mondo.

Ognuno ha il suo modo di comportarsi sui rami, ma quello che mi colpisce di più è l’atteggiamento del colibrì: arriva fugace, raccoglie il polline e vola via. Svolge una funzione essenziale, ma nessuno lo nota. Un sorriso compone la mia bocca e io realizzo che nonostante il clima tropicale io vorrei essere qui come quel colibrì: piccolo, invisibile, sempre lui, ma importante; più che come quel bellissimo fiore arancione.

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