Ripercorro con la mente i mesi che ho passato qua ad Atene e un turbinio di immagini, pensieri e parole prendono forma. Ognuno emerge così, senza un ordine e una logica, si fa prepotentemente strada nel groviglio dei ricordi.
Penso ad A. un pomeriggio di giugno, che ci accompagna nel campo profughi che chiama casa. A ripararlo una tenda da campeggio. Ha 17 anni e gli occhi scuri e profondi. Parla inglese, vuole studiare e diventare dottore. Per ora aspetta qua, aspetta un documento che non arriva. Passeggiamo tra le baracche. Su una di esse c’è una scritta che dice: “all is well”: tutto va bene. Pesa come un macigno. A. ci mostra le foto della sua famiglia e quando ci vede andar via non stacca lo sguardo per un po’, e noi ci sentiamo quegli occhi attaccati alla schiena.
Penso a K., a cui non so dare un’età. Il volto segnato dalla dipendenza. Si pettina i capelli e si stupisce quasi quando le chiediamo come si chiami e come stia. “Male” ci risponde. È seduta con due borse pesanti davanti all’androne di un palazzo. Quando uno degli inquilini scende e le grida di andarsene, si scosta con l’espressione vuota di chi ha subito l’ennesima umiliazione. Le offriamo cibo e cioccolata e poi lei se ne va; vorremmo chiederle tante altre cose che si fermano però sulla punta delle nostre lingue.
Penso ad A., che ci aspetta sempre il martedì sera. Mi ricorda mia nonna. Accanto a lei un bagaglio stracolmo, la sua “casa”. Seduta sulla sua seggiolina a racimolare qualche soldo ha sempre un sorriso e una parola buona per tutti. “Quando ero giovane giravo l’Europa, che bella l’Italia”. Per un attimo sfugge via col pensiero a una vita lontana, e noi con lei.
Penso al pranzo di Pasqua, ai compleanni e alle feste qua in casa, alle lingue diverse che si possono ascoltare, al cibo speziato che porta con sé i profumi di una terra lontana, alla musica e ai balli scomposti, allo stare insieme che appare così facile. Ad E., che sogna di andare in Inghilterra e di diventare musicista, e che è pieno di vita e di giovinezza. A N. che ha 16 anni, il viso da bambino e la consapevolezza dei “grandi”. A M. che prepara sempre una porzione di dolce in più.
Penso alla Capanna*: alle partite di uno, a I. che se la prende un po’ quando perde, ma non troppo. A T., con le sue borse stracolme, che ci mette sempre di buon umore. A M. che sedeva con noi e che se n’è andato un giorno e ora guida un taxi giallo per le vie di Mosul.
E dopo aver raccolto tutti questi frammenti di vita penso a come la mia stessa esperienza, il mio vissuto in questi mesi, si intreccino indissolubili con le storie che ho ascoltato, le mani che ho stretto e gli occhi che ho incrociato. E mi rendo conto di quanto spesso queste voci, che appartengono a persone, ad esseri umani, rimangano inascoltate. Mi sembra quasi impossibile: dentro la mia testa risuonano, hanno un eco tale da non poter essere ignorate. C’è tutto: gioia, riscatto, ingiustizia, dolore, passione. Mi parlano anche di me. Sento l’esigenza di raccontare, di mostrare a tutti queste immagini. Perché non si perdano nel caos, e non si dissolvano nella pigrizia di chi si volta dall’altra parte.
Penso a me, alla mia responsabilità. Penso a LORO.
*struttura di accoglienza per persone senza fissa dimora
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