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Caschi Bianchi Grecia

All is well

L’esigenza di diventare cassa di risonanza per dare voce a chi troppo spesso resta inascoltato. Mani, occhi e storie che si intrecciano, risuonano nei vissuti personali di ognuno di noi. Voci che ci parlano di LORO…ma anche di NOI.

Scritto da Valeria Verzeletti, Casco Bianco in servizio civile con Apg23 ad Atene

Ripercorro con la mente i mesi che ho passato qua ad Atene e un turbinio di immagini, pensieri e parole prendono forma. Ognuno emerge così, senza un ordine e una logica, si fa prepotentemente strada nel groviglio dei ricordi.

Penso ad A. un pomeriggio di giugno, che ci accompagna nel campo profughi che chiama casa. A ripararlo una tenda da campeggio. Ha 17 anni e gli occhi scuri e profondi. Parla inglese, vuole studiare e diventare dottore. Per ora aspetta qua, aspetta un documento che non arriva. Passeggiamo tra le baracche. Su una di esse c’è una scritta che dice: “all is well”: tutto va bene. Pesa come un macigno. A. ci mostra le foto della sua famiglia e quando ci vede andar via non stacca lo sguardo per un po’, e noi ci sentiamo quegli occhi attaccati alla schiena.

Penso a K., a cui non so dare un’età. Il volto segnato dalla dipendenza. Si pettina i capelli e si stupisce quasi quando le chiediamo come si chiami e come stia. “Male” ci risponde. È seduta con due borse pesanti davanti all’androne di un palazzo. Quando uno degli inquilini scende e le grida di andarsene, si scosta con l’espressione vuota di chi ha subito l’ennesima umiliazione. Le offriamo cibo e cioccolata e poi lei se ne va; vorremmo chiederle tante altre cose che si fermano però sulla punta delle nostre lingue.

Penso ad A., che ci aspetta sempre il martedì sera. Mi ricorda mia nonna. Accanto a lei un bagaglio stracolmo, la sua “casa”. Seduta sulla sua seggiolina a racimolare qualche soldo ha sempre un sorriso e una parola buona per tutti. “Quando ero giovane giravo l’Europa, che bella l’Italia”. Per un attimo sfugge via col pensiero a una vita lontana, e noi con lei.

Penso al pranzo di Pasqua, ai compleanni e alle feste qua in casa, alle lingue diverse che si possono ascoltare, al cibo speziato che porta con sé i profumi di una terra lontana, alla musica e ai balli scomposti, allo stare insieme che appare così facile. Ad E., che sogna di andare in Inghilterra e di diventare musicista, e che è pieno di vita e di giovinezza. A N. che ha 16 anni, il viso da bambino e la consapevolezza dei “grandi”. A M. che prepara sempre una porzione di dolce in più.

Penso alla Capanna*: alle partite di uno, a I. che se la prende un po’ quando perde, ma non troppo. A T., con le sue borse stracolme, che ci mette sempre di buon umore. A M. che sedeva con noi e che se n’è andato un giorno e ora guida un taxi giallo per le vie di Mosul.

E dopo aver raccolto tutti questi frammenti di vita penso a come la mia stessa esperienza, il mio vissuto in questi mesi, si intreccino indissolubili con le storie che ho ascoltato, le mani che ho stretto e gli occhi che ho incrociato. E mi rendo conto di quanto spesso queste voci, che appartengono a persone, ad esseri umani, rimangano inascoltate. Mi sembra quasi impossibile: dentro la mia testa risuonano, hanno un eco tale da non poter essere ignorate. C’è tutto: gioia, riscatto, ingiustizia, dolore, passione.  Mi parlano anche di me. Sento l’esigenza di raccontare, di mostrare a tutti queste immagini. Perché non si perdano nel caos, e non si dissolvano nella pigrizia di chi si volta dall’altra parte.

Penso a me, alla mia responsabilità. Penso a LORO.

*struttura di accoglienza per persone senza fissa dimora

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