Albania Caschi Bianchi

Ennesima storia senza lieto fine

Una storia che vorremmo poter riscrivere… a cui vorremmo poter cambiare il finale. Una storia di forza, coraggio e speranza che, scavando oltre la superficie, ci insegna “quanto sia lento e faticoso il cammino verso lo sradicamento della violenza”.

Scritto da Annalisa Marzia Felicella, Casco Bianco in servizio civile con Apg23 a Scutari

“A te che mi dicevi «ma tu dove vuoi andare che non conosci il mondo
e ti puoi fare solo male, ancora hai troppe cose da imparare.
Devi solamente stare zitta e ringraziare»
Parlando mi dicevi tutto questo e molto altro
guardandomi ogni volta dall’alto verso il basso
perché non pensavi che avrei avuto un giorno il coraggio.
Mi sembrava di restare ferma al punto di partenza
di non essere capace di bastare mai a me stessa,
di non avere una certezza
di non essere all’altezza.” 

(Nessuna conseguenza – F. Mannoia)

L’ultima volta che avevo incontrato L. era inizio settembre. L. aveva gli occhi lucidi e il sorriso sulle labbra. Mi aveva abbracciato più volte, mi aveva stretta forte a sé ripetendomi “Faleminderit” (Grazie). In quel caldo giorno di inizio settembre L., al quinto mese di gravidanza, era andata prima in ospedale e poi in polizia per denunciare la violenza subita. Sapeva che ciò che aveva compiuto era solo il primo passo e che le difficoltà non sarebbero mancate. Ma L. riusciva a camuffare bene la paura, alzando la voce verso chi, in più episodi, diventava il prelato Don Abbondio che approfittava della sua condizione di donna non scolarizzata. L., infatti, originaria delle montagne del Nord dell’Albania, aveva ricevuto un’educazione patriarcale: le era stato impedito di andare a scuola per occuparsi della casa e degli animali. Forse proprio per questo quando i genitori le avevano combinato il matrimonio con V., le era sembrato l’inizio di un sogno. Ed invece, quel sogno, è diventato subito un incubo con cui ha convissuto per 11 anni dando alla luce tre figli. V. ha sempre alzato il gomito e anche le mani tanto che, in una visita con il progetto “Incontriamo la povertà” fatta in precedenza, L., reduce da una nottata di botte, ci aveva detto “sono ancora viva, ma non so fino a quando”. E lo aveva ripetuto per tre volte. Era stremata e disperata. Proprio come la prima volta che sono stata a casa sua, quando, approfittando dell’assenza del marito, ci ha raccontato le violenze e le costrizioni a cui doveva sottostare. Era marzo e V., quando rientrava a casa ubriaco, la obbligava a dormire fuori casa proibendole di entrare nell’unica e fatiscente stanza anche quando i loro tre figli piangevano per dormire insieme alla mamma. Ricordo le lacrime sul suo viso e la paura che il marito tornasse da un momento all’altro.

Stasera l’ho rivista, aveva di nuovo le lacrime sul viso. Era impaurita, come tutte le volte che in questi mesi ci siamo incontrate.

Stasera era agitata perché i suoi bambini, dopo giorni di febbre alta, respiravano male. “È bronchite” ha detto il dottore del pronto soccorso, provando a tranquillizzarla.
Ma, stasera, a L. non basta dare la colpa all’instabile tempo meteorologico. Inizia a sfogarsi e faccio fatica a capire tutto. Lei sa che i miei livelli di comprensione della lingua sono bassi, quindi ogni tanto si ferma e mi chiede “a kuptove?” (Hai capito?). Ed ogni volta che tentenno, lei prova a spiegarmi di nuovo, lentamente, stringendomi le mani. È nervosa e si dà la colpa della malattia dei bambini costretti a vivere in una casa dove vento e pioggia passano attraverso i mattoni. È arrabbiata con sé stessa per aver ritirato la denuncia contro il marito ed aver ascoltato tutte le persone che le dicevano di rispettare il suo ruolo di moglie. Vorrebbe dare un futuro migliore ai suoi figli, vorrebbe avere i soldi per comprargli del cibo e le medicine senza dover sempre chiedere ad altri. L. sogna una vita diversa dalla sua per i suoi figli.
Nonostante il riposo assoluto prescritto dal ginecologo, L. continua a mandare avanti la famiglia da sola, occupandosi della casa, dei figli e degli animali senza l’aiuto di nessun familiare.
L. continua a dimostrarsi una donna forte che, anche se è ritornata sui suoi passi, nel suo piccolo ha dimostrato, a V. e alle persone del villaggio che si sono dilettate nell’arte del pettegolezzo, che la violenza subita non è normalità, ma reato perseguibile penalmente. L. non è la storia a lieto fine che speravo e che, forse, spero ancora. Però L. è una donna capace di chiedersi come abbia fatto a resistere tanti anni sottomessa, è una donna che ha dovuto subire la vessazione di non essere creduta da dottori e giudici, è una donna che ha lottato da sola contro una cultura che le ha imposto il ruolo, è una donna che ci ha provato fino allo sfinimento.
L. mi ricorda quanto sia lento e faticoso il cammino verso lo sradicamento della violenza, non solo fisica ma anche psicologica e verbale. È un processo culturale e sociale che si gioca, certo, sulla protezione delle vittime e la punizione dei carnefici, ma prima ancora sulla reale affermazione di parità tra i sessi, sul riconoscimento e sul rispetto dei reciproci diritti e doveri.

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