Bolivia Corpi Civili di Pace

Il rovente inverno boliviano

L’indignazione globale non è sufficiente

Scritto da Sara Miante, Veronica Pellizzari, Bianca Rizzo e Corinna Vulpiani, Corpi Civili di Pace con Engim – Focsiv a Montero

Il nostro arrivo in Bolivia nel dipartimento di Santa Cruz ha coinciso con l’inizio di quello che è stato considerato uno dei più grandi disastri ecologici degli ultimi 10 anni. Durante la prima settimana di servizio come Corpi Civili di Pace, nel municipio di Buena Vista (a meno di 50 km da Montero) sono stati monitorati 1065 incendi.

La scarsità di piogge e la mancanza di una risposta repentina e appropriata da parte delle autorità competenti ha portato ad una rapida e incontrollata diffusione dei fuochi nei dipartimenti di Santa Cruz e del Beni. Solo nella prima settimana di agosto si sono registrati circa 3000 incendi in Bolivia, con un incremento del 145% rispetto al 2018. Gli incendi si sono diffusi in modo improvviso nei mesi di agosto e settembre, provocando danni inestimabili al territorio e alla popolazione boliviana. A poco sono servite le proteste cittadine e le azioni dei numerosi volontari che si sono attivati prontamente per sopperire alle mancanze da parte del governo centrale: il Presidente Evo Morales in una recente intervista ad un quotidiano nazionale ha affermato che “di cosa potrebbero mai vivere certe famiglie povere se non del chaque” (la pratica di bruciare porzioni di terreno per produrre una loro rifertilizzazione).

Il totale disinteresse iniziale da parte del governo ha fatto sì che gli aiuti alla zona colpita dagli incendi tardassero di settimane. Una forte mobilitazione nazionale è scesa nelle piazze chiedendo al governo di accettare l’aiuto internazionale offerto al Paese. Gli incendi di quest’estate hanno causato la perdita di più di 3000 ettari di area forestale in Bolivia. Se si considerano i 2000 ettari già bruciati nella prima metà dell’anno, solo nel 2019, in totale, sono andati perduti 53 milioni di ettari, che equivalgono al Piemonte, Lombardia e Friuli Venezia Giulia messi insieme.

Ma come sempre accade, la narrativa mediatica racconta solo un lato della storia: questa volta l’attenzione internazionale si è concentrata nel condannare unicamente gli incendi dell’Amazzonia brasiliana e le politiche del Presidente Bolsonaro, attribuendo inoltre all’allevamento intensivo e alla relativa industria la piena e sola responsabilità del disboscamento del polmone della Terra. Se da un lato l’espansione di allevamenti intensivi in cerca di nuovi terreni per la coltivazione di foraggio è senza dubbio una delle cause di questi incendi, dall’altro, non tutti sono coscienti che anche la coltivazione della canna da zucchero è uno dei principali responsabili della rapida e costante morte dell’Amazzonia. Lo zucchero è un alimento e un ingrediente base per la produzione di sostanze quali alcool e bioetanolo che vengono quotidianamente consumati da ogni essere umano a qualsiasi latitudine e longitudine mondiale si trovi, indipendentemente della propria scelta etica e ideologica. Infatti, il 90% degli alimenti che consumiamo contengono zucchero, il quale risulta essere dannoso quanto numerose altre sostanze considerate tossiche, come ad esempio l’alcool.

La pratica comune della raccolta di canna da zucchero consiste nel bruciare intere porzioni della piantagione stessa, in parte per facilitare il taglio, in parte per allontanare serpenti velenosi e altri animali che si annidano tra le canne. Quello che dovrebbe essere un incendio controllato si rivela spesso essere un focolare esteso trasportato dalla veemenza dei venti che qui soffiano durante il periodo della raccolta. Non sempre infatti, i lavoratori impiegati nella raccolta sono formati su come gestire gli incendi né tanto meno conoscono le condizioni climatiche di quest’area geografica per identificare i giorni migliori per bruciare gli appezzamenti, essendo questi braccianti stagionali provenienti dalle Ande. L’impiego di questi lavoratori inesperti si è reso sempre più necessario per via dell’aumento della richiesta produttiva destinata all’esportazione degli ultimi anni. Nel 2017 la Bolivia ha prodotto 3,6 milioni di quintali di zucchero, di cui 1,5 milioni sono stati esportati. Questi numeri stanno avendo ripercussioni irreversibili non solo dal punto di vista ambientale, ma anche per quanto riguarda la salute della popolazione boliviana.

A tal proposito, la dieta media di un boliviano è prevalentemente basata sul consumo di bevande zuccherate, bibite gassate e alimenti dolci che hanno fatto sì che negli ultimi decenni la denutrizione che affliggeva la popolazione si sia convertita in un serio problema di malnutrizione. A livello sanitario sono numerosissimi i casi di malattie renali, diabete, ipertensione e obesità, non solo negli adulti. Nella realtà dei Comedores e delle comunità in cui implementiamo i progetti, incontriamo gli effetti di quanto appena descritto: dei 200 bambini iscritti al programma dei due Comedores, all’incirca la metà soffre di severo sovrappeso e obesità. Non sono abituati a bere acqua durante la giornata, prediligono alimenti altamente zuccherini e nonostante conducano una vita molto attiva è difficile che riescano a perdere peso e ad avere meno problemi durante la fase di sviluppo. Le patologie connesse al consumo diario di zucchero sono ancor più accentuate nelle comunità rurali dove, ad esempio, malnutrizione e problemi odontoiatrici sono all’ordine del giorno.

Come parte del nostro servizio, abbiamo recentemente avuto modo di collaborare con una brigata di dentisti statunitensi arrivati in Bolivia per prestare assistenza gratuita nella zona rurale dove implementiamo i nostri progetti. Durante 6 giorni di lavoro sono state eseguite 156 estrazioni e 106 otturazioni tra adulti e bambini. Non tutti i pazienti che si sono presentati hanno potuto essere curati e si è purtroppo dovuta dare la priorità solamente alle casistiche più gravi. Come al caso di doña Cesaria, 33 anni, a cui in una sola seduta sono stati estratti 13 denti, di cui rimanevano praticamente solo le radici. C’è stato poi il turno del 14enne Ricardo, che voleva l’estrazione dei due incisivi superiori poiché la famiglia non aveva la possibilità economica di pagare una devitalizzazione. Numerosi sono stati inoltre i casi di bambini a cui abbiamo dovuto estrarre denti ormai putrefatti e doloranti. Il fatto che persone così giovani si trovino in queste condizioni e siano costretti a subire tali interventi pregiudica per sempre le loro vite.

A questo punto ci si potrebbe domandare: quale assurdo collegamento esiste tra un albero che brucia in un qualsiasi punto dell’Amazzonia e un’estrazione dentale in una remota comunità della selva boliviana? Per quanto abbiamo osservato durante questi nostri primi mesi qui in Bolivia, percorrendo centinaia di chilometri ogni giorno, non vediamo allevamenti intensivi a perdita d’occhio, ma immense distese di piantagioni di canna da zucchero. Il “fenomeno dell’Amazzonia” non può quindi essere ricondotto solo al Brasile, né tanto meno le conseguenze possono essere ridotte unicamente al cambiamento climatico e all’innalzamento globale della temperatura. C’è molto di più dietro a quello che è successo quest’estate nel polmone verde del mondo: l’indignazione globale è servita a puntare i riflettori su questa parte del pianeta, ma non è sufficiente se si riduce ad essere solo un’indignazione transitoria.

E’ necessario porsi delle domande ulteriori sui complessi ed interconnessi problemi che oggigiorno affliggono l’Amazzonia, cercando soluzioni che derivino da opinioni informate e coscienti, nonché globali.

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