Caschi Bianchi Messico

Off limits Aguascalientes

Dopo mesi di preparazione e di costruzione collettiva continua il percorso dei volontari del servizio civile ENGIM nei centri di lavoro e la gestione dei progetti in ambito educativo e socio-sanitario nel quartiere di Solidaridad II, Aguascalientes. Il lavoro svolto dai volontari si basa principalmente sugli obiettivi definiti dal progetto “Caschi Bianchi Messico-Honduras 2019” nell’ambito del bando del servizio civile 2019 il cui scopo è quello di limitare il problema della dispersione scolastica, contrastare le forme di violenza (che hanno provocato le stesse vittime di un paese in guerra) e il triste aumento delle diseguaglianze sociali.

Scritto da Vito Raspanti, Casco Bianco in servizio civile con Engim Internazionale – Focsiv

Dai risultati generali dell’Editor Responsibility Compliance Index (ICRE) si è potuto constatare che nessuno stato in Messico adempie alle proprie responsabilità di garante del diritto all’apprendimento a livello base e, peggio ancora, rispetto alle indicazioni della classifica passata, non è avvenuto nessun miglioramento nei luoghi dove si è già svolto un percorso differente. Nella lista pubblicata nel 2018 lo stato di Aguascalientes si poneva alla nona posizione (dati elaborati da ICRE). Le classifiche si basano su 13 indicatori – tra i quali l’apprendimento, la permanenza a scuola e le condizioni strutturali – che mettono in evidenza il numero di entità effettivamente impegnate nel garantire ai bambini ed adolescenti il diritto all’apprendimento. Tali indici si basano su dati concreti ma ci rivelano soltanto dove siamo e non il perché. Forse bisognerebbe indagare superando la scala locale del campo educativo, come è stato fatto nel caso dello Stato di Guerrero, in cui è emerso che la violenza influisce sulle prestazioni, sulla permanenza a scuola e sulla vita in generale. Nel caso sopracitato, l’aggressione permanente nel paese sta generando una crisi umanitaria derivata non solo dalla privazione dei diritti umani, quali l’accesso al rifornimento di cibo e medicine, ma anche dal timore di lavorare la terra ed essere uccisi o l’incapacità di tenere le scuole aperte per il rischio di possibili attacchi nei confronti delle proprie figlie e dei propri figli.

È inoltre necessario garantire una copertura educativa più estesa, dal momento che – come dichiarato dagli esperti in politica dell’educazione – ad ogni chilometro di distanza in più (soprattutto nel caso delle ragazze) la probabilità di andare a scuola diminuisce del 10%”, ponendo in evidenza una problematica di genere, legata all’ampio numero di ragazze che non riesce a frequentare le lezioni per paura di subire violenze.

Nella zona di Solidaridad II, gli abitanti trascorrono le loro giornate tra la famiglia, la scuola, la parrocchia e il posto di lavoro che spesso è la fabbrica. La loro vita trascorre in un susseguirsi di spazi nei quali viene imposta una rigida disciplina che interessa sia il corpo che l’anima. Il gruppo di lavoro ha affrontato, a partire da varie prospettive tematiche, il problema sul fronte del sistema educativo, il rapporto tra i fattori d’accessibilità e il contesto sociale nella sua dimensione più ampia. In particolare, ha indagato le cause relazionali esistenti fra condizione economica e livello d’istruzione. Ne è emerso che c’è un nesso e che questo nesso mette in luce che a scarse condizioni economiche corrisponde un più basso livello di istruzione. Le istituzioni non dispongono di risorse o fondi per coprire adeguatamente queste mancanze e spesso le famiglie allontanano dal percorso di studi i propri figli, i quali si rifugiano in sé stessi, alimentando disagi esistenziali legati a stati di solitudine e alla mancata possibilità di creare pratiche relazionali fra coetanei.

C’è Rodrigo che si presenta con i pugni chiusi e le ferite di una vita (molto giovane) che non riesce a curare. Lo vedo prendersi cura di suo fratello più piccolo, ha quattro sorelle e un problema familiare non indifferente. Ha 12 anni e, malato o sano nel campo relazionale, parla tra i sogni, urla di dolore. Una volta, mentre disegnava, mi accorsi che c’era qualcosa di strano e allora decisi di avvicinarmi. Ancor prima di chiedere, lui gira il foglio e dice: “questa è la testa, queste le mani, questi i piedi, queste le gambe. Un corpo senz’anima, questo sono io”. Chiudo gli occhi e mi distacco con la mente e la sensazione di non sapere cosa fare.

C’è Greta che ha un carattere forte, non vuole padroni e quasi sempre riesce ad averla vinta con tutti. Lei va da sola al parco, osserva i ragazzi più grandi ma non capisce certi modi di fare.

Ha 14 anni, comincia a porsi delle domande sul proprio corpo e sui propri sentimenti. Non trova esempi concreti, la mente manipola tutto il corpo, Greta vuole comandare e controllare. Cerca di avere sempre l’ultima parola, aspira all’onnipresenza. Reprime le emozioni, parla ad alta voce, ti guarda oppressa. Dimentica il mangiare e il riposo, vive le giornate senza fermarsi, ha un vuoto intellettuale e non riconosce il periodo della sua vita. Sembra spaventata, ho chiesto se c’era qualche problema ed è stata male anche per questo. Certo, queste dovrebbero essere domande di routine ma in determinati contesti il significato delle parole cambia e assume un valore differente. Dovremmo rifugiarci nella “filosofia del privato”, nelle “filosofie del limite”, ed esplorare la relazione con i diritti riproduttivi per segnalare il bisogno delle donne che richiedono un supporto di tipo educativo, preventivo e relazionale, riconoscendo il rischio di portare avanti o di rifiutare una gravidanza che farebbe nascere un bambino in gravi situazioni socio-sanitarie.

Questi sono solo degli esempi con nomi inventati.

È l’Aguascalientes della periferia d’oriente, quella “zona fantasma” non tanto ai turisti quanto agli hidrocalidi (abitanti di Aguascalientes) della Zona Nord, ai fresas, “fragolette”, come vengono chiamati ironicamente gli appartenenti dei ceti emergenti. C’è inoltre il quartiere de Las Palmas, un agglomerato di casupole e baracche di lamiera, territorio dei cholos-banda, ragazzi e addirittura bambini che vivono in strada e combattono per il controllo di un isolato o per procurare i soldi per la droga. Qui è facile attirare l’attenzione: basta apparire abbastanza guero, cioè “dalla pelle bianca”.

Più che l’avanzamento lungo un percorso d’equità, lo sviluppo del quartiere mostra condizioni di svantaggio sociale, di diseguaglianza e, dal momento in cui sono utilizzati termini per demarcare presunte “isole” territoriali di relazioni sociali, tali condizioni finiscono per offuscare la profonda compenetrazione di tutte le scale sociali e il groviglio di reti intercalari da cui esse sono costituite.

Un percorso d’esaurimento dell’essere che consuma sé stesso e che introduce i soggetti della comunità verso la dialettica del fraintendimento, non lasciando posto ad un presente sul cui contenuto la conoscenza potrebbe fondarsi e, contemplandolo, arrestare la fuga.

L’immaginario culturale dei bambini è plasmato da un muro invisibile, in cui lo spazio pubblico subisce le pratiche di controllo dei gruppi criminali locali e respinge quindi una parte della comunità. Da qui il rischio di creare spazi in cui domina una rigida disciplina, e in cui il senso d’umanità dei singoli perde di valore fino a scomparire. Potremmo, dunque, predisporre un’etichetta da porre sulla porta d’entrata del quartiere con su scritto “Zona del Non Essere”, un luogo dove si marcano i confini tra i diritti umani, il diritto all’apprendimento, la libertà d’espressione e l’esigenza di rispondere alla vita con differenti espressioni di violenza.

Spesso sono questi i problemi riscontrati nei processi di trasformazione del quartiere: le vittime del sistema criminale e della violenza vengono usate come strumento di controllo, diventando schiavi della corruzione istituzionale che si nutre e consuma un quartiere già in stato di forte disagio. Vengono prodotte delle ricadute concrete e devastanti sul piano dello spazio urbano, dell’abitare e della vita nel quartiere. Tra la difficoltà ad accedere alla rete dei servizi socio-sanitrari ed usufruire del diritto alle cure, vengono riprodotte alcune dinamiche frequenti in una comunità stanca di subire, e poche volte denunciare, la violenza nei confronti di donne e bambini. Analizzando  il Messico e i casi di femminicidio, è possibile riscontrare che la violenza sulle donne sta diventando di fatto un fenomeno emergenziale e strutturale. I media possono svolgere un ruolo fondamentale rispetto a tal condizione poiché, responsabili di quello che diffondono, possono influenzare l’andamento e contrastare la violenza nei confronti delle donne. Purtroppo questo non avviene e resta evidente la non efficienza del sistema di comunicazione nell’affrontare la problematica in questione.

Queste sono solo due delle problematiche affrontate dalle comunità messicane che bruciano sulla pelle delle persone come delle ferite sempre aperte. Ogni giorno c’è un motivo per “mollare” e scappare, ma non c’è niente di peggio di essere intrappolati tra distanza e oblio, sull’orlo del precipizio, senza nessuno che ti ricordi che a volte piangere è un altro modo per non affogare. Non è stato un percorso semplice, molti di noi pensavano di avere la risposta a tutte le domande, ma le individualità del quartiere rappresentano ciascuna una storia, un vissuto, un’esperienza unica. Da qui la necessità di imparare a creare strumenti di resistenza, cercando di affrontare e superare momenti traumatici o periodi di difficoltà all’interno di un percorso bidirezionale, rifiutando l’esigenza di sottoposti o capi e lavorando sulle relazioni interpersonali.

Abbiamo creato degli spazi di narrazione all’interno dei centri di lavoro e tutti i soggetti coinvolti sono stati in grado di sviluppare conoscenze, di confrontarsi ma soprattutto di lottare per nuovi rapporti di fiducia. Le strade e i parchi diventano gli stadi del nostro mondo. Gioie e promesse che sembravano certe non bastano per colmare la voglia di giocare. Il cammino ci pone davanti a varie scelte ed ostacoli, a dei momenti difficili o felici, ma l’obiettivo di creare aree libere da qualsiasi forma di violenza, senza discriminazioni e diseguaglianze per le strade, dove si esprime semplicemente il quartiere, vive nei cuori e nelle vene di tutti volontari.

Mi soffermo, guardo il pallone nelle mani sudate dall’altra parte del mondo e scopro un paese diversamente meraviglioso, pieno di storie e leggende, voglioso di sogni ed utopie, dove il realismo magico diventa messicanità. Un luogo dove poter dare un calcio ad un pallone o mangiarsi un tacos aspettando che il sole tramonti.

“É ora di cambiare musica, o almeno, strumento.”

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