Anche qui in Bolivia mi sono sentito spesso dire che le persone sono il risultato delle proprie scelte; che il senso di colpa per essere nato nel lato giusto del mondo è infondato perché non esiste un lato giusto; che, con i dovuti accorgimenti e le proporzioni del caso, ovunque le persone sono libere di inseguire ciò che desiderano. Mi sono sentito dire che non è una questione di luogo di nascita, né di famiglia, né di contorno sociale; al più questi fattori possono influenzare, ma di certo non determinano la qualità delle scelte di ognuno, la vita che si porta dietro. Non esistono sfigati, esistono solo le persone, le persone che con il ventaglio di opportunità steso davanti fanno alcune scelte e non altre. Il vagabondo, il tossicodipendente, la prostituta, il ladro, il migrante, la zingara, il depresso, il morto di fame, il disoccupato, ognuno è ciò che ha scelto o non scelto di essere. Punto. Tutto qui. Non serve menarla con la favola della fortuna, della sorte che gioca ai dadi con la storia in un vortice cieco di casualità. La realtà è che la fortuna non esiste, esistono solo la persona e il mosaico di decisioni che ne costruisce il presente.
Ammetto che per un po’ ho creduto a questa visione determinista, ed è stato un gran sollievo. Per la coscienza soprattutto. Un soffio d’acqua tiepida sull’io interiore che continuava a sussurrare che sono quello che sono, felice, sorridente, solo perché ho avuto una gran fortuna. Mi sembrava di aver capito che non servisse cambiare il mondo, il mondo non ha nulla che non va, al massimo può essere utile aiutare alcune persone a prendere scelte migliori. Ma non dovevo sentirmi baciato dalla sorte, ciò che portavo con me veniva semplicemente dall’aver preso scelte buone.
Ho lasciato che questo piacevole rollio mi cullasse per qualche tempo. Fino a quando è successa una cosa che mi ha fatto riflettere. Una cosa piccola, banale, eppure lì, dura, gelida. Un incontro come tanti che però, non so bene perché, si è fatto roccia grezza nella mente.
Qualche giorno fa prendo un minibus, il trasporto pubblico di La Paz, di sera, e trovo ad aprirmi la porta scorrevole un ragazzino di non più di sette anni, occhi vispi e guance lisce, il cappellino della squadra di calcio locale sulla fronte, marsupio alla vita e un piglio da adulto che male si attacca alle sue mani molli e pallide. Sembra un passeggero come gli altri, magari seduto qualche sedile lontano dalla mamma. Poi si gira e mi chiede di rendergli il costo del passaggio. Lo guardo stupito. Nell’attesa che sviscerassi le tasche alla ricerca di due spicci, butta la testa fuori dal finestrino in movimento e strilla con tutto il fiato in gola il nome di un quartiere incomprensibile dove il minibus è diretto. Rimette la testa dentro, non ho spicci, pago in banconota, si sporge allora verso l’autista due sedili più avanti e chiede “Papi, tienes cambio?”.
Ricevendo il resto tocco la palma della sua mano. È davvero liscia, biancoccia, morbida, come quella di un bambino. Resto forse qualche attimo di troppo con il suo palmo tra le dita, indeciso, allora alza gli occhi scuri verso i miei e sorride piano. Accenno un sorriso anch’io, prima di girarmi verso il finestrino e perdermi nella vista del via-vai sul marciapiede.
Un bambino, non più di sette anni, otto forse, affianco al papà la sera tardi, lavorando come bigliettaio tra sguardi assonnati e brilli. La mattina dopo magari si sarebbe svegliato presto per andare a scuola, con lo stesso cappellino della squadra del cuore. Un bambino, come lo sono stato io. Un bambino, come lo siamo stati tutti, che però mi ha inchiodato nel pensiero della mia infanzia soffice. Io, a sette anni, la sera, d’inverno, me lo ricordo bene, mi rannicchiavo nelle coperte tra le preghiere di mamma, le sue mani ruvide a scompigliarmi piano i capelli. Cadevo nel sonno con le sue ultime sillabe, dormivo aspettando di essere svegliato dalle stesse mani. Non avevo porte da aprire, monete da ritirare, strade da urlare, volti da incrociare. Mi abbandonavo al tempo placido della sera come in un dipinto di pastelli; i miei occhi assonnati non vedevano oltre la cornice delle mani ruvide profumate di notte. Per quel bambino invece la sera è uno spettacolo già visto centinaia di volte, duro e senza mistero come l’ultima pagina di un libro letto troppe volte.
Allora, perso nel via-vai riflesso nel finestrino, ho pensato a tutti i volti che ho riconosciuto nelle palme bianche e molli di quel bambino. Ci ho riconosciuto gli occhi dei bimbetti accolti nell’asilo nido dove presto servizio, incoscienti di avere alle spalle la disperazione di mamme abbandonate. Ci ho riconosciuto il tremolio della voce dei giovani compagni di tetto in comunità, alcolisti, mentre raccontano il passato di violenze subite per mano del padre, alcolista pure lui. Ci ho riconosciuto le lacrime di chi con l’inganno s’è ritrovata buttata su un marciapiede a dover vendere il proprio corpo, dietro la minaccia di far del male alla propria famiglia dall’altra parte del mare. Ci ho riconosciuto i sorrisi stanchi di chi vive in macchina da settimane perché le banche gli hanno portato via le chiavi di casa. Ci ho riconosciuto i piedi scalzi degli adolescenti congolesi camminare chilometri ogni giorno per raggiungere l’unico centro educativo fuori della città. Ci ho riconosciuto le mani piene di calli di chi è abituato a spingere la propria carrozzella da decenni, morto dalla vita in giù. Ci ho riconosciuto la tosse tisica dei minatori boliviani, liberi di scegliere l’unica fonte di lavoro tra le montagne del sud, nella consapevolezza di non arrivare a vedere i propri quarant’anni. Ci ho riconosciuto le pupille rosse dei migranti venezuelani pregare i passanti di scambiare le proprie banconote, ormai cartastraccia, per un pezzo di pane. Ci ho riconosciuto le schiene curve delle vecchine del campo mentre tornano a casa alla sera col fagotto colorato gonfio della frutta invenduta.
Ogni volto, ogni storia, è impressa nelle palme morbide di quel bambino, nel suo fare d’adulto figlio di un’innocenza placida sfiorita presto. Ogni volto, ogni storia, mi ricorda la mia di storia, da dove vengo, chi mi ha cullato fin qui. Mi rendo finalmente conto che nelle pieghe della quotidianità scegliere, volere, è un lusso che appartiene a pochi, quando milioni di mani sono attaccate alla fune di un tempo già scandito. Sì sono stato fortunato, sì sono stato baciato dalla sorte, sì sono nato nel lato giusto del mondo, in un indirizzo che mi fosse davvero casa, con persone che mi fossero davvero famiglia, tra strade dove sentirmi sicuro, amato. Tanto basta per far nascere quel senso di colpa che accende l’anima. Il mondo così com’è non è giusto e vederne le distanze, i dislivelli, è il primo passo per farsene responsabili. A volte basta fermarsi a osservare, un bambino, una donna, un vecchio, leggerne negli occhi la storia, il passato, la sorte. Tanto è sufficiente per vedersi riflesso, vedersi diverso, capirsi irrimediabilmente lontano. È questa sensazione di distacco che ci fa motore di cambiamento, almeno a me funziona così. Le mani molli del bambino al lavoro di notte mi hanno ricordato quelle di mamma mentre mi metteva a letto. E mi è bastato questo pensiero per capire che ho una fortuna da condividere e scontare. Essere lì dove la distanza è più profonda si fa riflesso di una consapevolezza da trasformare in vita, ogni ora, ogni giorno. Nascondersi dietro il sipario dell’individualismo ci fa piccoli e inutili, ciechi all’evidenza del mondo.
Oggi lo so, e ringrazio il sorriso timido di quel bimbo al lavoro per avermelo raccontato.
Foto di Nicolò Segato
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