Fin da quando sono arrivata a Ginevra, all’inizio di febbraio, mi sono resa conto di come in questa città si respirasse un’aria diversa, quella di una realtà multinazionale che ospita tante istituzioni e organizzazioni internazionali. Mettendo piede al Palazzo delle Nazioni Unite questa atmosfera è diventata inebriante. Assistendo al Consiglio dei Diritti Umani, mi sono sentita parte di qualcosa di grande, un piccolo ingranaggio di un sistema complesso. Ascoltavo i discorsi di chi svolge il proprio lavoro con passione e crede che si possa trovare il modo di superare le ingiustizie, risolvere i conflitti, cancellare le disuguaglianze e rafforzare la solidarietà tra i popoli, usando gli strumenti della parola, della ragione e del diritto.
Scendendo ogni mattina alla fermata dell’autobus, ho iniziato a interrogarmi sul senso della nostra presenza lì. Certo – mi dicevo – il Palais che si staglia magnifico dietro le bandiere in fila, circondato dalla sua aura solenne, è davvero il tempio dei Diritti Umani. È il luogo in cui gli Stati si incontrano per dialogare, cooperare e promuovere un modello di società internazionale più giusto e solidale.
Tuttavia, un dubbio, come un tarlo, ha cominciato a insinuarsi nella mia testa. Quanto di tutto quel che avviene nel Palais incide realmente nella vita di chi sperimenta quotidianamente la sofferenza, la fame, gli abusi e le sopraffazioni e quanto è invece frutto di una retorica fine a se stessa? Le raffinate dissertazioni degli esperti, le discussioni in punta di fioretto tra i delegati in Aula, le conversazioni informali al Serpentine bar, e in generale tutto ciò che è parte dei complessi e affascinanti meccanismi della diplomazia, non rischiano di farci perdere il contatto con la realtà?
Imbattendomi in una esposizione allestita in occasione del Consiglio, sono rimasta colpita da due disegni. Da un lato un girotondo di uomini e donne provenienti da tutto il mondo, felici nel mostrare gli strumenti universali della “Legge” che li unisce e protegge. Dall’altro, il volto di un bambino segnato dalle lacrime di sangue che prendono la forma dei continenti. Questo dualismo mi ha fatto riflettere: mentre il Palais è un’isola felice, una fucina di idee e innovazioni, fuori insorgono i populismi, crolla il multilateralismo, le crisi persistono e i diritti continuano ad essere calpestati. Lo spazio per la società civile, come ci viene ripetuto più e più volte, si riduce e con esso sembra affievolirsi la voce di chi ha il compito di mantenere vivo il legame con il mondo circostante. Allora, qual è il senso di sedere in quell’Aula? Che cosa possono fare le piccole e volenterose ONG, quando gli Stati antepongono al dialogo i propri egoismi e interessi? Soprattutto, cosa posso fare io che, con il mio bagaglio di insicurezze, mi sento un pesce fuor d’acqua, anzi, un insetto invisibile?
Al momento non ho una risposta a questi quesiti, ma non per questo rinuncio a cercarla mentre mi trovo immersa in una realtà completamente diversa ma altrettanto sfaccettata, quella di Casamondo. Infatti, parte del mio Servizio Civile viene svolto a San Savino (RN), presso una struttura che ospita 15 richiedenti asilo di diverse nazionalità, in attesa del fatidico permesso di soggiorno. Uno dei benefici di vivere al suo interno, consiste nel comprendere come questa realtà, contrariamente a quanto si potrebbe pensare osservando da fuori un CAS, non sia caratterizzata da eccezionalità, ma si contraddistingua per la normalità con cui ognuno dei ragazzi vive la propria condizione di attesa (seppur estenuante) e si relaziona con gli operatori e con noi volontari. Nonostante le piccole difficoltà della convivenza e l’incertezza riguardo il futuro, l’atmosfera di questa casa è resa positiva dalla naturale voglia di mettersi in gioco, di conoscersi e di comprendersi reciprocamente e, più in generale, dal lavoro di tutti coloro che “abitano” e animano Casamondo, adoperandosi per renderla un posto ospitale. Nel suo piccolo e nella sua semplicità, qui si mettono in pratica, nel concreto e senza troppi fronzoli, i valori della solidarietà, dell’accoglienza e del rispetto dei diritti.
Grazie a Lorena per questo articolo, sincero e stimolante. Nella mia fase di ricerca del progetto di servizio civile, questa testimonianza è stata davvero un ottimo spunto.