Arrivo in struttura, Bafoussam, Camerun: è la mia prima volta in Africa, un grande sogno che si avvera, e inizia finalmente il mio servizio civile, l’esperienza per cui ho tanto aspettato, fantasticato, rinunciato. Sono carico, entusiasta e impressionato: un nuovo mondo, così diverso, esotico e accogliente. E’ tutto bellissimo.
La terra rossa africana, di cui mi parlavano, c’è davvero e riflette la luce di un sole potentissimo in un effetto magico.
In casa mi accolgono calorosamente con cibo, musica e curiosità. C’è un bambino, che ride e scherza durante i canti, è così tenero; penso che un suo sguardo sarà sufficiente a mettere allegria alle mie giornate. Già, perché anche lui vivrà con me. In comunità si vive tutti assieme, in “condivisione”.
Già, la vita comunitaria è un altro grande motivo per cui ho scelto di essere qui: condivisione diretta, ciò che ho lo divido con te, anche se vieni dalla strada o dalla prigione, possiamo vivere assieme nella pace e nell’amore. Basta guardare l’accoglienza che ho ricevuto per capire che è proprio così: tutti fratelli, coinvolti e sorridenti. Insegnatemi, voglio vivere così per sempre.
Passa un po’ di tempo, inizio a entrare nella quotidianità, l’entusiasmo per il mio arrivo è svanito. Il mio mondo comincia a confrontarsi con quello della casa e dei suoi inquilini, emergono difficoltà e conflitti. La distanza tra i due mondi si fa chiara, ogni giorno cresce, fino a sembrarmi insostenibile. Cambio quasi di colpo prospettiva. È tutto negativo, brutto.
La terra rossa è un incubo, non riesci a togliertela di dosso, dai vestiti, in casa. Pulisci e un attimo dopo è già lì.
Quel bambino tanto tenero è invece dispettoso e fa i capricci. Mi fa innervosire quasi ogni giorno.
Mi trovo in difficoltà e vorrei un momento per me, ma quando? Dove? Ovunque mi trovi, qualcuno è lì a parlarmi, disturbarmi e spesso provocarmi. La vita comunitaria mi opprime, mi nega la privacy e mi impone di condividere con chi è tanto, troppo diverso da me. Io, così, non ci posso vivere.
Trascorrono altri giorni, comincio a mettere un po’ d’ordine alla quotidianità, a intravvedere il punto di vista del progetto e ad avere una vaga idea di quale possa essere il mio ruolo in tutto ciò. Inizio a starci per davvero.
La terra rossa impone pulizie continue, organizzate e collettive: devi collaborare e coordinarti quotidianamente con chi ti sta a fianco. Mi accorgo che quella diventa un’occasione di conoscenza e confronto, che si ripete ogni giorno e mi permette di entrare in contatto con l’altro, quasi come un rituale di conoscenza e fratellanza.
Iniziano a crearsi relazioni autentiche, spogliate delle aspettative e dalle prime impressioni di cui le avevo caricate. Quel bambino è alla ricerca di attenzione e affetto, come qualsiasi altro bimbo. Capisco che, quando disturba, se mi siedo a fianco a lui e gli tengo la mano, si calma.
Mi rendo conto che le difficoltà, se davvero condivise e affrontate con chi ogni giorno mi sta a fianco, creano un legame che aiuta e rafforza entrambi. Capisco che è questo, forse, il senso della vita comunitaria e della famosa “condivisione”. Condividere è difficile, ti mette alla prova e ti chiede molto, ma dentro sento qualcosa che si muove e che mi fa lavorare con me stesso, per accogliere gli altri.
Non so quanto starò qui, se questa sarà la mia vita o meno, ma sento che sto imparando e crescendo tanto e, finché sarà così, continuerò. Ho la consapevolezza che in questa esperienza non sarà mai tutto bello o tutto brutto, ma certamente sarà tutto vero.
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