Si avvicinano i 170 giorni di permanenza a La Paz: siamo quasi a metà di questa incredibile esperienza. Dopo il primo periodo di adattamento alla e nella città, ho cominciato a guardarla con occhi diversi e ho scoperto una città versatile che nasconde due tipi di visioni: una da viaggiatore ed una da abitante.
Vivere a La Paz non è per tutti: si è continuamente esposti a due realtà, quella più occidentale, quasi europea, fatta di comfort, modernità e lusso – a mio parere soffocante – e quella autoctona e originaria, dove vivo e che amo e che rappresenta per me il cuore della città.
Definirei questa parte della città una “maestra di vita” da cui imparare che le barriere sono solo un limite mentale, che la diversità non è un problema ma un’opportunità, che devi essere paziente, anche per comprendere la popolazione locale, inizialmente fredda e restia e successivamente cordiale e calorosa.
Devi saperti adattare, accettando che non ci sono parole per descrivere luoghi meravigliosi e che non è possibile giudicare le differenti tradizioni che rappresentano la storia di questi luoghi.
Ma non solo: sto capendo che la felicità è data dalle piccole cose e non dal denaro, che il lavoro è sacrificio e che l’umanità e l’umiltà, valori ormai rari, rappresentano la forza che ci spinge a pensare, a riflettere, a collaborare, ad elogiare chi merita, ad aiutare chi ha bisogno, a ringraziare e a chiedere scusa. Forse è anche questo lo scopo del Servizio Civile: non è solo offrire un appoggio a livello lavorativo ma è una vera scuola di vita che ti dà la possibilità di imparare molto più di quello che si può apprendere tra i banchi di scuola; offre a chi sceglie di viverla l’opportunità di elaborare una maturazione psicologica e sociale, imparando a lavorare in gruppo e a sentirsi persino utili. Dando il proprio contributo sociale e civile. E se il progetto di cui sei parte rispecchia i tuoi studi, hai vinto all’enalotto, sperando che tutto questo rappresenti anche una risorsa in più da giocarsi per un futuro stabile.
La festa del Gran Poder
Se qualcuno mi chiedesse qual è la cosa più bella della Bolivia, risponderei senza dubbio la diversità, perché ti permette di focalizzare l’attenzione, in modo specifico, su un contesto variopinto.
Qui sono sempre spinta dal desiderio di scoprire qualcosa di nuovo, La Paz è fonte di sapere e di approfondimento del bagaglio culturale. Il fascino delle diversità, di stili di vita sconosciuti, di mete remote e lontane che portano a nuovi “luoghi” non è motivata necessariamente da una ricerca frenetica di posti folcloristici da visitare. Spesso basta solo guardarsi intorno e immergersi negli occhi di qualcun altro, negli occhi dello “straniero”. Ed è proprio spinta da questa mia curiosità, che ho deciso di guardare da vicino questa popolazione e di calarmi appieno nelle loro tradizioni e spezzare un po’ quei confini sociali che a volte noi stessi creiamo e che separano le persone.
Ho partecipato alla festa del Gran Poder: una sfilata composta da oltre 50 confraternite folcloristiche tipiche che rappresentano un importante patrimonio culturale del paese. Si tratta di una festa religiosa di devozione con la promessa di danzare per tre anni di seguito per dimostrare la propria gratitudine verso la divinità del Señor de Gran Poder.
Alla festa partecipano all’incirca 30.000 ballerini e 4.000 musicisti, che invadono le strade di La Paz sfilando a ritmo di musica dall’alba a notte fonda. La tradizione prevede che prima della sfilata ufficiale venga fatta una promessa per chiedere favori al Santo con l’impegno di ballare e partecipare all’evento, accompagnata da un riconoscimento alla Pachamama attraverso l’esecuzione di riti che prevedono un brindisi di buon auspicio.
È stato emozionante partecipare a questa sentita festa perché, in qualche modo, mi ha permesso di essere parte di una comunità che ha un’identità del tutto differente da quelle in cui sono cresciuta. Ciò non ha significato tradire le proprie origini ma, anzi, apprezzarle ancora di più e arricchirle e mi ha permesso di confermare quello che l’antropologo Fredrik Barth afferma quando parla di confine etnico: “in qualche modo siamo noi che definiamo e stabiliamo dei confini che in realtà sono invisibili tra noi e gli altri e che sono legati a dei codici di comportamento”. L’autore sostiene che il confine è quello che marca le appartenenze ma, in realtà, questi sono attraversabili.
Le mamme e i minori delle comunità indigene
La Paz è una città multiculturale dove sono presenti etnie differenti: Aymara e Quechua sono le più diffuse e costituiscono i 2 maggiori gruppi etnici delle 36 etnie indigene presenti in Bolivia.
È facile imbattersi in queste comunità, soprattutto nei mercati che circondano il centro della città, dato che la maggior parte di loro vive di attività agricole e della vendita di prodotti.
È ammirevole come lavorano qui le persone: la maggior parte delle bancarelle del mercato sono gestite da signore che, sedute per terra con i loro vestiti coloratissimi, ravvivano la città dalle 6 del mattino fino al tramonto. La loro vita è principalmente basata sulla fatica: si lavora per sopravvivere e questo contribuisce ad una scarsa attenzione per la prole. Non è un caso che sia molto diffusa la delinquenza giovanile.
Ascoltando le storie dei ragazzi in stato di detenzione è normale sentirsi dire che si sentono soli o che non ricevono visite dai genitori perché troppo occupati dal lavoro.
Ho notato questo fatto anche nel giorno della festa della mamma, quando sono andata al “Centro di Reintegrazione Varones”, dove risiedono ragazzi dai 14 ai 18 anni, per assistere ai diversi spettacoli organizzati per le loro famiglie. È stato per me molto toccante osservare questi ragazzini seduti su panche con il posto riservato per qualcuno della famiglia che non è mai arrivato, ho letto lo sconforto e la delusione nei loro occhi e mi sono sentita impotente: qualche battuta per strappare un sorriso non ha potuto sostituire l’appoggio e l’abbraccio rassicurante che una mamma può dare. Al tempo stesso però è stato emozionante vedere le signore andine con i loro vestiti tipici, cariche di roba da vendere nella sacca che si pongono sulla schiena come fosse zaino, abbracciare e piangere insieme ai loro figli di gioia per quell’incontro in un giorno tanto speciale.
Sono realtà che portano a pensare, a confrontarsi, a mettersi in gioco e ad apprezzare quello che si ha.
Credo che ogni genitore debba spronare i propri figli a viaggiare e vivere in realtà differenti. Perché anche se la distanza peserà e farà stare male, è un’esperienza incredibile! Personalmente la consiglio a tutti, non per fuggire, bensì per accrescersi a livello professionale e personale.
E ora lo posso dire con certezza: questa esperienza mi sta facendo crescere! Mi ha permesso di avere un’altra visione di me stessa, delle persone intorno a me e del mondo.
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