Quando entri in una baracca non puoi non notare la puzza, lo sporco, la povertà e il calore. Soprattutto il calore. Quel senso di accoglienza vero e profondo che ovunque ti aspetteresti di trovare, ma non lì. Anzi, forse non te lo aspetteresti da nessuna parte perché è unico e mai provato prima. Quando entri in una baracca, nonostante la puzza e lo sporco, ti togli le scarpe e ti siedi sui divani che di notte sono letti sovraffollati.
Quando entri in una baracca devi sederti e mangiare. Perché ti verrà allestito un banchetto, non importa quanto povera sia una famiglia, ci sarà sempre cibo per un ospite che arriva. E vederlo mangiare è una gioia. La mamma di casa prepara silenziosa il caffè e tutto quello che può offrirti, e raramente si siede a tavola con te. Resta in disparte e guarda.
Quando sono entrata in una baracca per la prima volta e mi sono seduta, ho provato disagio di fronte a quanto mi veniva offerto. Riuscivo solo a pensare che non era giusto. La mia pancia era già piena e non era giusto mangiare il loro cibo. Finché ho capito che il rifiuto era un gesto peggiore. E ho cominciato a mangiare.
Quando entri in una baracca ti senti a disagio per la povertà che ti circonda finché non ti lasci sorprendere dai sorrisi dei bambini e dalla loro voglia di giocare e ti dimentichi dove sei. Quando perdi la rigidità e i preconcetti con cui arrivi, le lezioni di inglese diventano solo un pretesto per conoscersi e guardare al di là di tutte quelle barriere culturali e linguistiche che dovrebbero separarci e invece sono motivi per scherzare e ridere insieme. E davvero ti fai travolgere dalla bellezza di quell’incontro così inusuale ma così vero e vivo e ti senti grata per quell’abbraccio che ti accoglie e per quei sorrisi che ti vengano regalati.
Quando esci da una baracca hai un sorriso grande così!
E per questo continui a entrarci, ogni settimana.
Di certo non per i progressi fatti con le lezioni di inglese, di certo non per sentirti realizzata dai risultati raggiunti. Ma per addentrarti sempre di più in quell’incontro così complicato eppure così bello.
All’inizio Aleko, 10 anni, mi dava il benvenuto in casa sua con uno sbilenco “Good bye”, quasi a volermi scoraggiare ad entrare. Ora “Good bye” l’abbiamo trasformato nel nostro saluto speciale, che solo noi capiamo e che ci fa cominciare la lezione già col sorriso.
Ramini, 11 anni, un giorno ha deciso di regalarmi un tatuaggio. Ero così emozionata che ho tenuto gli occhi chiusi fino a opera completata. Mi aveva disegnato una barca per tornarmene in Italia. Ho abbozzato un sorriso e ho ringraziato ma un po’ intristita. Con un po’ più di confidenza e coraggio, settimane dopo, gli ho chiesto se volesse davvero rimandarmi in Italia perché si era stufato delle lezioni insieme. Con un sorriso disarmante mi ha risposto che non capisco niente, la barca la userò solo quando vorrò io ma per lui è meglio se rimango ancora per tanto tempo.
“Bidzia”, letteralmente “zio”, è il termine usato comunemente per rivolgersi a un uomo e spesso l’ho usato parlando con i miei alunni finché Raindi, 13 anni, mi ha detto che non vuole essere chiamato così perché non è ancora un uomo. Dopo attimi di incertezza gli ho chiesto se posso chiamarlo “dzma”, fratello. Si è illuminato ed ha annuito.
Ancora non mi sono abituata allo stupore dei bambini di fronte a una maestra che si mette al loro livello,
gioca con loro e spesso perde. Non sono una maestra invincibile e lontana, conosco poche parole di georgiano, sbaglio spesso e mi faccio correggere. A volte, addirittura, con la penna rossa, per la gioia infinita degli alunni.
La prima volta che ho portato i giochi che avevo preparato per loro, memory e battaglia navale, mi hanno chiesto un po’ titubanti se ero sicura di voler giocare con loro, se anche le maestre possono giocare.
Loro hanno imparato che anche se sono grande, italiana, femmina e ogni tanto maestra, posso giocare, fare il mimo, sbagliare, perdere e soprattutto divertirmi con loro. Io ho imparato che solo uscendo dalla mia quotidianità senza la paura del diverso e dell’imprevedibile posso uscire da una baracca con la pancia piena e salutando un bambino georgiano dicendo “A presto fratello”.
E quella barca per tornare in Italia ancora non la voglio usare.
La “Perla del Mar Nero”
Batumi, la capitale dell’Adjara, regione autonoma della Georgia, è da anni chiamata la “Perla del Mar Nero” e oggi è diventata il parco divertimento del Caucaso, con tutti i suoi casinò scintillanti e hotel di lusso.
Ma nella periferia della città si trova una baraccopoli. È stata costruita in pochi giorni nell’autunno del 2012 in un’ex base militare russa.
È nata all’indomani della vittoria politica del partito “Sogno Georgiano” la cui principale promessa elettorale era di affrontare uno dei problemi più sentiti in Adjara: la situazione degli eco-migranti che si sono ritrovati senza casa per le eccessive frane nella zona nord della regione. E da qui prende il nome di Otsnebis Kalaki, “la città del sogno”. Nell’arco di cinque giorni, nell’autunno del 2012, sono state costruite centinaia di baracche che oggi si stanno trasformando in case di mattoni e che si estendono su un’area di 25 ettari. Secondo i dati ufficiali sono 1500 le famiglie che oggi vivono in Otsnebis Kalaki, ma secondo una stima più realistica sono almeno il doppio. (Fonte: Dream Town: Batumi’s ghetto. Di Mari Khitarishvili e Teona Tavdgiridze, per JAMNEWS, 17 Ottobre 2017)
Da anni l’ass. Comunità Papa Giovanni XXIII svolge diverse attività di supporto e accompagnamento di alcune delle famiglie che vivono in Otsnebis Kalaki. Oggi andiamo tre volte alla settimana a fare lezioni di inglese a piccoli gruppetti di bambini. Sono occasioni per entrare in contatto con una realtà complessa e molto chiusa in se stessa.
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