I bambini che ho incontrato nei campi profughi delle isole greche continuano a popolare i miei sogni. Quei sogni che si fanno la mattina presto e che rimangono in una zona remota e inconscia di sé stessi, così che quando ci si sveglia non li si riesce più a ricordare chiaramente. Tuttavia questi sogni diventano parte del proprio sé. Così quei bambini sono diventati parte di me, dimorano in qualche angolo nascosto della mia mente, da cui ogni tanto, durante il mio sonno, fanno capolino.
Nei miei sogni questi bambini non si trovano nelle tende sporche che ho visto e fotografato: li incontro in qualche luogo sicuro, non so dove, ma provo un senso di sollievo per loro, perché sono al riparo dall’incubo dei campi.
Ma questi sono solo sogni. La realtà è che moltissimi bambini vivono nell’inferno dei campi profughi. Ciò che ho trovato sorprendente è stato lo stridente contrasto tra la bellezza dei bambini e la miseria in cui vivono. Sembra che le brutture del posto non abbiano intaccato la luce vivace dei loro occhi pieni di vita e la loro incontenibile voglia di fare amicizia con chiunque. La loro infanzia scorre nonostante la sofferenza che li circonda. Giocano con nulla. Il campo diventa ogni giorno una jungla da esplorare. Due di loro ci hanno scortate per due giorni interi durante le nostre visite all’hotspot di Chios, come guide locali in missione speciale: hanno perlustrato ogni angolo, hanno giocato a nascondino fra le tende, si sono arrampicati sulle rocce, ci hanno indicato la strada. Tutto là è un gioco per loro. I pericoli e le pessime condizioni di vita del campo fanno parte di questa avventura: scappare dai serpenti, saltare le pozzanghere maleodoranti, andare alla ricerca di pietre o bastoni per i genitori che sistemano le tende, strisciare attraverso le reti metalliche che separano i vari settori del campo, spingere le carrozzine dei loro fratellini più piccoli mentre i genitori fanno le consuete due ore di coda, tre volte al giorno, al punto di distribuzione pasti.
Il paragone sembrerà esageratamente drammatico, ma lì per lì mi hanno ricordato in qualche modo il bambino protagonista de “La vita è bella”, che per sopravvivere agli orrori del campo di concentramento prendeva tutto come un gioco. E i genitori mi hanno ricordato Benigni nei panni del padre, per il quale la sopravvivenza del figlio diventava l’unica ragione per resistere.
Lo stesso accade nei campi profughi: i bambini sono la speranza per il futuro, il senso del viaggio, la resilienza al dolore. Là dentro i bambini sono il bene più prezioso: chi non ha bambini di cui prendersi cura è senza speranza.
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