Ieri la mia di per sé bassa attenzione mattutina é stata interamente catturata dalla presenza di un dettaglio nella mia barba. Un pelo. Bianco. Lungo. Faceva capolino dalle parti del mento e metteva in bella mostra la sua albina nuditá senza pudore alcuno.
Forse, mi son detto, é il momento giusto per fare il punto della situazione. Collegare i punti di un percorso quasi sempre improvvisato, spesso tortuoso, verosimilmente bizzarro. E, fatto questo, tentare azzardate previsioni sul futuro, sporgersi in avanti il piú possibile ricordandomi peró di tenere le mani ben fisse sulla ringhiera. Per non rischiare di cadere.
Prima di avventurarmi in questa personale attraversata del deserto – che se non si fosse capito sará provare a capire cosa voglio fare da grande, e con chi – vorrei provare a trasmettere qualcosa di quello che fino a oggi é stato il mio percorso nel volontariato. E magari, senza volerlo, dare qualche spunto di riflessione al volontario terzomondista wannabe che non avendo nulla di meglio da fare si troverá a leggere queste sonnolente righe.
(Anche se di cose migliori da fare ce ne sarebbero. Per esempio riascoltarsi l’ep d’esordio dei Decemberists, leggersi l’oroscopo di Rob Breszny o, se avete piú tempo, guardatevi questo documentario sul fracking).
Per cominciare metteró giú alcune delle cose che dal volontariato ho avuto. Di positivo, s’intende.
Sará scontato, ma di positivo ho avuto le persone. Alcune persone, almeno. Tra coloro che si imbarcano per queste esperienze è facile trovare esseri umani decisamente interessanti, dotati di qualitá morali e professionali rare. Condividere un contesto cosí particolare permette di stringere rapporti in modo piú rapido, spontaneo e genuino di quanto avverrebbe altrove. O almeno questa é stata la percezione che ho avuto.
Ho avuto poi esperienze fantastiche, uniche e irripetibili. Viaggi in luoghi remoti ed esotici, lunghe nuotate nell’Oceano, faticose camminate sul ciglio di un canyon, interminabili ore di autobus per raggiungere comunitá sperdute nel deserto. Probabilmente non mi capiterá piú di poter viaggiare cosí tanto. Vuoi per mancanza di tempo, vuoi per scarsitá di fondi.
Ah giá, i fondi. SCN e CCP sono esperienze che seppur non siano, a onor del vero, considerate lavoro salariato garantiscono una retribuzione significativa. Di certo superiore a quella a cui un ventenne degli anni Duemiladieci con una laurea non tecnica (Relazioni Internazionali? Davvero?) possa aspirare in Italia.
Ma soprattutto, ho avuto la sensazione di star fancendo qualcosa di utile. A intermittenza, per caritá. Per la maggior parte del tempo si é trattato di compiere difficili esercizi di autoconvincimento mattiniero al limite col training autogeno per trovare un senso alla giornata appena cominciata. Nel contempo, saltuaria quanto preziosa si è fatta strada la sensazione di aver lasciato qualcosa, da qualche parte nel mondo, che per qualcuno continuerá ad avere un significato. Cosa tutt’altro che scontata, a conti fatti.
Infine, (rullo di tamburi) ho avuto una maggior consapevolezza di me, delle mie prioritá e delle mie motivazioni. A partire del fatto che, in fondo, degli altri non mi interessa poi cosí tanto. Suona male, lo so, ma lasciate che mi spieghi.
(In alternativa siete ancora in tempo per interrompere la lettura e guardare un video di gattini davvero esilarante).
Nei miei anni di volontariato – non tantissimi, ma comunque rappresentativi – ho imparato a diffidare da chi dice di farlo “per gli altri”. Chi si racconta la storia del volontario solidale e caritevole con l’unico scopo di andare ad aiutare i meno fortunati é, nella migliore delle ipotesi, uno sprovveduto. Nella peggiore un idiota.
Non che trovi sciocco voler aiutare gli altri, tutt’altro. Soltanto non trovo che sia una ragion valida – né verosimile – per imbarcarsi in esperienze di campo della durata superiore alle due settimane (per due settimane a insegnare parole in inglese ai bambini etiopi, invece, andrá benissimo).
Convincervi del contrario vi fará forse far diventare di colpo il/la nipote preferito/a di nonna, ma la possibilitá che vi si ritorga contro una volta calati nella realtá che vi troverete ad affrontare é concreta. Perché presto il fascino esotico della periferia lascia il posto alla consapevolezza che vi trovate in posto semplicemente, inequivocabilmente brutto. Perché – sopresa – le persone che dall’alto della vostra superioritá culturale europea vi accingete ad aiutare potrebbero, in alcuni casi, essere persone che fondamentalmente vi stanno sulle scatole. O viceversa.
Capire di non esere persone altruiste, generose e mentalmente aperte come ci piace raccontare – e raccontarci – è il primo passo per essere persone piú altruiste, piú generose e mentalmente aperte.
Quindi, se il volontariato all’estero non lo fai per gli altri, per chi lo fai? Beh lo fai per te stesso. E nel tempo ho conosciuto persone che lo hanno fatto per i motivi piú disparati.
C’è chi lo fa per mettersi da parte due soldi per un master. Chi lo fa per aumentare i suoi follower su Instagram a suon di selfie con bambini di colore. Molti lo fanno perché “sennó cos’altro faccio?”. Altri, in modo abbastanza evidente, lo fanno per sentirsi la coscienza apposto. C’è chi lo fa perché gli hanno detto che si lavora poco e chi lo fa per “iniziare una carriera nella cooperazione”. C’è chi lo fa perché vuole dimenticarsi di lui/lei e chi – parole testuali – lo fa perché in quel posto lí è pieno di fi*a.
Nel mio caso sono partito tre volte, tutte e tre con motivazioni diverse ma che possono facilmente ricondursi a un misto tra spirito d’avventura, desiderio di accumulare esperienza nella cooperazione e sensazione di non avere reali alternative davanti a me. Poi è arrivato tutto il resto: le cose belle, sí, ma anche lo spaesamento, la rabbia, il disagio, la frustrazione, il senso di impotenza, la nostalgia, il timore di perdere persone care. Affrontare tutto questo non è stato collaterale all’esperienza di volontariato. Piuttosto, ne è stato il fulcro.
Arriverei quindi a dire che le motivazioni con cui si parte non sono, in fin dei conti, cosí importanti. Non quanto quelle con cui si torna, almeno.
Personalmente torno con la motivazione di voler continuare un percorso che, anche se non so bene a cosa né dove mi condurrá, ho la netta impressione sará valso la pena di essere stato percorso. Perché in fin dei conti é un bel lavoro, e se fatto bene a qualcosa serve. E io ho bisogno di fare qualcosa che serva. Non per gli altri, per me.
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