Il primo ostacolo è l’interazione, il trovare una sorta di intesa, un patto tacito grazie al quale siamo consapevoli che stiamo comunicando, in qualche modo. Non è un problema di lingua, di cultura diversa o di abitudini opposte come si potrebbe pensare erroneamente e in maniera troppo scontata. È qualcosa che riguarda più strettamente la sopportazione umana, la storia di soprusi ed oppressioni, la resilienza, tutto concentrato in uno sguardo forte e maturo, tosto e risoluto.Non è lo sguardo di un anziano capo villaggio, di un attivista politico, di un giornalista di guerra, è lo sguardo di un bambino, anche se mi viene difficile definirlo bambino. In fondo chi è un bambino? Colui che ha meno di 18 anni? Definizione troppo anagrafica ed insensibile. Colui che entra in un processo di apprendimento familiare e scolastico? Forse… ma non per tutti, come ben sappiamo. Colui che non definisce lo scandire del tempo, che agisce secondo la propria spontaneità, a cui piace giocare, che trapassa le difficoltà relazionali dovute ad esperienze difficili e dolorose? Questa volta nemmeno, purtroppo…
La sua storia e quello che il suo corpo ha vissuto è talmente lontano dalle mie esperienze e dalle mie abitudini che mi viene complicato trovare quel punto in comune che solitamente si usa per iniziare un discorso, è difficile intravedere e scorgere quel comune denominatore esperienziale che normalmente aiuta a rompere il ghiaccio ed iniziare una conversazione; sono stata bambina anche io, ma in modo completamente differente…Abbiamo passato una settimana insieme, non eravamo solo io e lui, faceva parte di un gruppo di 53 minori non accompagnati riportati dalla capitale, Kampala, alla loro terra di origine, il Karamoja, per essere reintegrati e ricominciare la loro vita qui, dopo aver trascorso mesi e mesi a mendicare, dormire per strada, supplicare cibo e subire violenze fisiche e mentali. Questo il progetto organizzato da Unicef qui in Uganda, denominato “Returnees”. La struttura in cui sono stati accolti si trova a Kobulin, nel distretto di Napak; è stato svolto un lavoro di una settimana per raccogliere i dati, le testimonianze e avere i contatti con i villaggi per riuscire, alla fine, a portare a termine il reinserimento familiare.Il processo viene denominato “IDTR: Identification, Documentation, Tracing, Resettlement”. Durante la prima fase vengono compilati dei form in cui si identificano le informazioni strettamente biografiche dei bambini. Con la seconda fase si prova a scavare un po’ più a fondo nelle storie, nei vissuti e nei ricordi degli accolti per cercare di costruire il prima, il durante ed il dopo della vita trascorsa a Kampala. Con il processo denominato “tracing” si entra nel pratico dell’esperienza, ovvero i bambini, dopo un’attenta ricostruzione di ricordi ed intreccio di informazioni, vengono riportati ai villaggi di origine per garantire che le loro famiglie siano presenti e pronte ad accoglierli, instaurando così il primo contatto di riavvicinamento che si completerà con l’ultima fase, quella che prevede il vero e proprio ricongiungimento familiare facilitato, oltre che dal supporto psicologico e logistico degli assistenti sociali incaricati e delle autorità locali, dalla donazione di alcuni beni materiali come cibo o utensili per la vita quotidiana.
Mi viene difficile descrivere le attività una dopo l’altra, i programmi, i risultati ottenuti, quello che “la carta” dice che abbiamo svolto, concluso ed ottenuto. I sentimenti di smarrimento e lontananza rispetto alle esperienze di questi bambini sono fortissimi e questo mi spinge a chiedermi come le mie parole ed i miei sguardi possano essere sinceri nei loro confronti. Ho il forte desiderio di comunicare con loro, fare domande e giocare insieme ma ho la consapevolezza che il mio agire sia seriamente condizionato dal fatto di sapere che sto avendo a che fare con minori che hanno subito forti traumi e che di conseguenza sia mio compito adeguare le mie azioni e le mie parole in base a tale situazione… mi chiedo se ne sono in grado, se questa volta riuscirò a misurare i miei comportamenti mettendo da parte la superficialità e la banalità. È una fiducia che si costruisce molto lentamente.La domanda che continuamente si presenta alla mia mente è se si stia veramente proponendo la chiave giusta per agevolare loro l’inizio di una vita migliore; non è facile il reinserimento in famiglie e comunità che intendono come stranieri questi bambini, lontani ormai da troppo tempo per essere considerati di nuovo come membri di un contesto sociale ed economico sviluppatosi durante la loro assenza.
Per questo credo che la sfida più grande, in qualsiasi contesto di accoglienza, sia quella di intendere tale accoglienza come un processo a lungo termine, che non finisce una volta soddisfatti i bisogni primari ma anzi è proprio lì che inizia il vero impegno, pratico ma anche umano, di lavoro di comunità.
La comunità, infatti, può essere una risorsa in grado di agevolare nel lungo periodo l’individuo nel raggiungimento di una piena autonomia e consapevolezza del contesto in cui vive.
Quello che si è fatto in questi giorni è certamente un successo, i bambini hanno toccato di nuovo le loro origini, hanno rivisto i colori, gli utensili, la natura con cui sono cresciuti e sicuramente hanno incrociato sguardi comprensivi e di affetto.
Ora sono con le loro famiglie, dormono e cucinano nei loro villaggi, si ambientano nel contesto che li ha fatti nascere ma che allo stesso tempo li ha respinti a causa di avversità che non permetteva loro di soddisfare bisogni necessari come la fame e l’educazione.
Per evitare che questa voglia di scappare si ripresenti, bisogna creare intorno a loro un contesto sano, salutare, sereno, che consenta loro di esprimersi, lavorando in sinergia con i leaders locali ed i villaggi adiacenti creando la consapevolezza che il presente di un bambino sarà in futuro l’equivalente di un territorio maturo, che saprà offrire ai propri abitanti una vita dignitosa e ricca di soddisfazioni.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!