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Corpi Civili di Pace Ecuador

Un “semplice” ufficio

Mi trovo a Quito, capitale dell’Ecuador in quanto parte dell’esperimento chiamato Corpi Civili di Pace – CCP. Esperimento sul quale non mi dilungherò perché già ampiamente affrontato dai miei colleghi in analoghi articoli.

Scritto da Marco Ciot, Corpo Civile di Pace con FOCSIV

Da amante della puntualità e poco fiducioso dei mezzi pubblici, il primo giorno di lavoro mi sono trovato ad arrivare all’incrocio delle strade– Calle Portete E 12-79 y José Manuel Abascal – un po’ in anticipo. Se non ricordo male ¾ d’ora. Non conoscendo i mezzi pubblici di Quito, non avevo voluto rischiare! E per fortuna… La sede di quello che sarebbe stato  il mio ufficio per i successivi mesi non ha insegna e questo è un problema in un paese dove gli indirizzi sono incroci di strade, sigle e numeri apparentemente senza senso (come sopra). Morale della favola: arrivo a lavoro puntuale solo grazie alle indicazioni di due operai che sistemavano dei cavi elettrici. Arrivo puntuale ma in ufficio, che è una casa molto grande con terrazzo, non c’è nessuno. Erano le 9:30 a.m. Ho aspettato. Non avevo nessun numero da chiamare se non il fisso dell’ufficio.

Questo si è ripetuto anche il giorno successivo, finché non ho decido di arrivare a lavoro un po’ più tardi e tutto è andato per il meglio. In ufficio siamo pochi. Mai più di 5, mai meno di 2, per la maggior parte delle ore in 3. Nelle peggiori delle ipotesi, vi sembrerà un ufficio poco credibile o perlomeno anomalo. Ho avuto anche io questa impressione. Ma ci stiamo sbagliando tutti.

Certo è che non si tratta di ufficio come gli altri. Il lavoro e la lotta che affronta ogni giorno sono fuori dal comune, ecco perché. Qui si combatte quotidianamente la battaglia del nostro tempo, la lotta dei pochi contro i molti, dei ricchi contro i poveri, di un pugno di uomini contro una multinazionale miliardaria che produce ciò di cui (quasi tutti) abbiamo bisogno ogni giorno: derivati del petrolio.

A volte mi sembra di essere in un romanzo di spie. Riunioni a porte chiuse, rigorosamente con cellulare e PC in un’altra stanza (chiusa anch’essa),  anche se in tutta la casa ci siamo solo noi.  Internet generalmente non funziona bene, ma a ridosso di eventi particolarmente importanti i problemi aumentano esponenzialmente. Account usati quotidianamente, all’improvviso non permettono più l’accesso. Queste difficoltà sono all’ordine del giorno. Come questa battaglia, iniziata nel 1993 e da sempre caratterizzata da avvenimenti e colpi di scena degni di un film: minacce dirette e indirette, falsità mediatiche, spaccature interne ed internazionali.

Nonostante tutto ciò, la missione della UDAPT (Unión de Afectados por Texaco) continua. Anche nei momenti peggiori, senza soldi, senza risorse, la speranza è l’ultima a morire.
Si lotta per l’Amazzonia,  per le Nazionalità indigene -Waorani, Siekopaai, Siona, A´I Kofan, Shuar y Kichwa – colpite dall’estrazione indiscriminata e criminale iniziata negli anni Sessanta del Novecento nel nord-est dell’Amazzonia Ecuadoriana.
Si lotta perché venga pagato il risarcimento a scopo di riparazione ambientale e socio-culturale stabilito dalla sentenza del 2011 della Corte di Sucumbíos, pari a 9,5 miliardi di dollari. Perché si possa creare questo precedente legale unico. Perché gli ecosistemi e chi ci abita da tempi immemori, possano finalmente avere giustizia nei confronti del potere che ha segnato il boom economico, del simbolo dello sviluppo ma anche di tante problematiche odierne, non solo ambientali. Perché la Natura e chi la difende possano continuare a vivere in pace e in armonia con essa.

È tempo di riconoscere colpe e responsabilità. Sono necessari umiltà, coraggio e perseveranza. Soprattutto per continuare a guardarci allo specchio ogni volta che facciamo benzina, mentre cuciniamo i nostri hamburger di soia.

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