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Caschi Bianchi Ecuador

Un terrazzo su Lago Agrio

Silvia Murgia sta svolgendo servizio civile a Lago Agrio, in Ecuador, e in questo articolo oltre a raccontarci alcune storie di cui è testimone ogni giorno, ci spiega come il suo servizio civile, nonostante le iniziali difficoltà ad adattarsi, sia “una scoperta, una sfida quotidiana ma è anche consapevolezza della mia identità, dei miei punti fermi e della forte difficoltà a incrinarli”.

Scritto da Silvia Murgia, Casco Bianco Focsiv a Lago Agrio

Siamo quasi allo scadere dei quattro mesi qua in Ecuador – un terzo di questa esperienza è già volata via – e io ancora mi sento un’osservatrice silenziosa, come se fossi appena arrivata. Eppure l’ufficio popolato da zanzare, gli almuerzos, le infinite riunioni per decidere cosa fare senza lasciare poi tempo per attuare effettivamente i piani, il caldo umido della selva, i nove diminutivi su dieci parole, la famosa hora ecuatoriana, il pane molliccio e dolce, la natura fitta e preponderante, mi sembrano tutti elementi di casa ormai.

E non è una casa in cui sempre è facile stare, perché spesso mi sono sentita intrappolata in questa grigia cittadina dell’Amazzonia, che dista almeno otto ore di bus da qualsiasi altro luogo di interesse, che aveva una pessima reputazione fino a pochi anni fa – e ancora oggi non è considerata propriamente sicura – e che chiaramente è stata pensata senza nessuna anima, costruita ad hoc per essere un dormitorio per chi lavora nell’industria del petrolio dal lunedì al venerdì. Lago Agrio – o Nueva Loja, nome ufficiale che nessuno utilizza – ha solo quarant’anni, non ha un’identità, se non proprio quella di contenitore di persone provenienti da posti diversi. Non offre un angolo bello per gli occhi o un locale dove poter prendere una birra senza che il reggaeton ti martori il cervello né una qualsiasi attività di tipo culturale come mostre, musica dal vivo o spettacoli teatrali… neanche esiste uno spazio per ospitare tutto questo! L’unico angolo di Lago che ho imparato ad amare è il nostro terrazzo, dove con la mia coinquilina-compagna di vita e gli altri servizio civilisti spesso mi rifugio per osservare le fugaci luci del tramonto o per godere di un po’ di aria fresca mentre ci beviamo una birretta defaticante e sgranocchiamo i chifles.
Il servizio civile non è stato una “vocazione” per me, era più una necessità per farmi strada fra le mie mille idee, per mettermi in gioco e per testare le mie conoscenze e la mia flessibilità. Per tentare di concretizzare quelli che erano stati i miei sogni, anche utopici, fino a quel momento. E ora che lo vivo è una scoperta, una sfida quotidiana ma è anche consapevolezza della mia identità, dei miei punti fermi e della forte difficoltà a incrinarli – ma poi, chi ha detto che dovrei incrinarli? È una continua ricerca di equilibrio fra il lasciarmi coinvolgere e il non dimenticarmi chi sono. Non è la prima volta che vivo lontano da casa, sono abituata a sradicarmi e inserirmi in posti nuovi fin dai tempi del liceo, ma questa è la prima volta che non trovo una chiave per adattarmi con la solita facilità. Per un po’ la sensazione di soffocamento e la domanda “Ma sei sicura di voler andare avanti?” hanno fatto da padroni.
Da poco sono tornata a casa per votare e, per la prima volta, ho saltato una settimana di lavoro, un po’ inconsapevole dell’effetto che mi avrebbe fatto. Mi sono ritrovata a scrivere tutti i giorni per avere notizie su una riunione, per ricordare al mio capo di alcuni appuntamenti o di assicurarmi che alcune scadenze fossero rispettate, per chiedere come fosse andato il laboratorio settimanale con i ragazzini del barrio aeropuerto, a provare una punta di gelosia per chi mi aveva sostituito e domandarmi se i ragazzi avessero chiesto di me, se avessero notato la mia assenza.
E al mio ritorno la soddisfazione nel vederli corrermi incontro, abbracciandomi “perché è tanto che non ci vediamo”: mai avrei pensato di lavorare con gli adolescenti, non sapevo nemmeno che sarebbe stato parte del mio progetto e mai avrei pensato che il mio legame con loro sarebbe stato così emotivo.
Quindi sì, è così che ho capito di aver fatto la scelta giusta. Perché lavorare con sole altre tre persone in un’organizzazione di una piccola città di confine, mi dà l’impagabile vantaggio di poter lavorare in prima persona e di assumermi responsabilità. Qui ho l’occasione di svolgere un ruolo chiave in attività differenti e di toccare con mano la realtà di frontiera, ogni giorno, sia con visite nelle comunità, sia con interviste ai beneficiari, ma anche grazie alla collaborazione con varie istituzioni presenti sul territorio. I cooperanti e i funzionari statali di Lago Agrio formano una piccola famiglia, a fine giornata sono loro che provano a insegnarmi qualche passo di salsa, che mi consigliano i piatti tipici e mi accompagnano a casa la sera. E questo mi permette di avere i contatti utili per indirizzare nella strada giusta anche le persone per le quali non abbiamo i mezzi per un supporto.

E quali sono queste storie di cui sono testimone nel mio quotidiano e che posso raccontare?

Ho incontrato la madre con la figlia adolescente che con un po’ di vergogna mi chiede sottovoce se conosco qualcuno che possa aiutarla con gli alimenti perché è sola e non può lavorare, a cui, con forte frustrazione, sono costretta a dire che no, non ha i requisiti richiesti dalle organizzazioni presenti sul territorio e non c’è quindi niente che possiamo fare per lei. C’è però anche la famiglia numerosa appena arrivata in Ecuador che ha ottenuto la visa humanitaria e che non vede l’ora di tornare in ufficio per condividere la gioia di aver ricevuto la tessera per il supermercato.

Ho incontrato madre e padre e i loro figli piccoli che per ora dormono nella struttura dell’UNHCR e che sono arrivati di notte dalla Colombia, senza aver avuto il tempo di portarsi dietro neanche un piccolo zaino e che sono increduli e grati quando dici che certo, se hanno bisogno di quella coperta che hanno scovato nel nostro guardaroba, possono prenderla.

Lavoro con la nostra beneficiaria ventottenne, parte del progetto “Medios de vida”, che – nonostante tutte le atrocità di cui è stata testimone – ha la risata e la leggerezza di una bimba di otto anni, felice di tutto ciò che la circonda ed è quasi ingenua nelle sue risposte durante i laboratori di formazione. Poi, però, con lucidità ci parla dei suoi maiali, di come deve nutrirli e curarli e fa richieste puntuali su tutto ciò che le serve per portare avanti la sua piccola attività.

Ho incontrato la donna di settant’anni che dalla sua comunità è venuta fin da noi a denunciare il marito per le violenze subite negli ultimi cinquant’anni. Viene accompagnata dalla figlia che, fiera e protettiva, la sprona a farsi forza, andando contro il proprio padre e a ogni convinzione sociale machista, perché è fermamente convinta che non sia più giusto sopportare in silenzio e vuole che la madre possa iniziare una vita autonoma, coltivando la sua parte di terra in tranquillità. Ho visto il sorriso spontaneo e un po’ sdentato di quella donna quando abbiamo depositato la denuncia e la richiesta di separazione.
Le storie che ogni giorno mi passano davanti sono moltissime, i beneficiari che arrivano sono così tanti e gli impegni della giornata talmente serrati che spesso non ho neanche il tempo di fermarmi per metabolizzarli.
In realtà, il più delle volte, è per scelta che cerco di non entrare nel dettaglio delle loro storie: noi della Caritas non abbiamo alcun requisito per poter dare aiuto a una persona, non importa che si tratti di un immigrato economico, di un rifugiato o di un irregolare, aiutiamo chiunque si trovi in una situazione di vulnerabilità, ecuadoriani compresi. E, proprio per questo, evito di domandare dettagli quando le persone non decidono spontaneamente di raccontarmeli, perché non sono necessari. Evito di farlo perché chiedendogli giustificazioni – quando poi per il mio lavoro poco cambia – ho l’impressione di violare ricordi dolorosi, di mettere in dubbio, dall’alto della mia situazione di privilegio, la loro situazione di difficoltà. E poi anche perché non ho ancora sviluppato alcun distacco, non ho imparato come uno possa ascoltare racconti di sofferenza e poi proseguire la sua giornata. Non ho imparato come si può lasciare le persone ad aspettare un’oretta mentre tu sei in pausa pranzo o in riunione e la sera tornare a casa e lasciarsi alle spalle tutto, come se fosse una semplice giornata pesante di lavoro da lasciare in ufficio, per riprendere a lamentarsi della pasta che qui è sempre scotta o del coriandolo protagonista di ogni piatto o di dover andare a pagare le bollette di persona perché qui su internet neanche si trovano gli orari dei bus, figuriamoci se si possono fare pagamenti online.

Quindi sì, sono passati quasi quattro mesi e ancora non sono riuscita a esplorare la selva che è alle porte della mia città, ancora non abbiamo iniziato parte dei progetti previsti – comunità di nativi, a quando? -, ancora osservo e cerco di capire, ma poi evado, viaggio durante ogni fine settimana libero e il tempo corre veloce e mi domando se un anno sarà sufficiente per imparare a parlare ecuadoriano (e non si tratta di una questione linguistica!), per poter ascoltare le storie più pesanti con un sorriso senza permettere che mi schiaccino e soprattutto per dare un contributo effettivo a questa piccola realtà, che da sola si deve fare carico di troppe situazioni di emergenza, di troppe persone che sono alla ricerca della loro prima occasione per condurre una vita dignitosa.

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