I quattro bimbi, dei sei che ha, incastrati sui sedili come pezzi di un tetris, hanno gli occhi sgranati e sorridenti. Quelli di Lorena, sono persi fuori il finestrino e gonfi di lacrime.
Conosco questa famiglia da quattro mesi dei nove che mi trovo qui in Ecuador, ad Ibarra, ed è la quarta volta, da quando li ho conosciuti, che cambiano di alloggio. Anche questa volta, provvisorio. Lorena e la sua famiglia sono rifugiati colombiani; nel loro paese, di “traslochi” ne hanno fatti più di quindici. Spostamenti furtivi, veloci, nascosti, angoscianti. Questa è la storia dei desplazados colombiani, sfollati nel conflitto armato da parte di guerriglieri, paramilitari e/o soldati. La Colombia ne ha visti muoversi nei suoi confini circa 7,3 milioni negli ultimi 50 anni1. Come Lorena, circa 57.000 colombiani, secondo gli ultimi dati dell’UNCHR (Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) aggiornati a settembre 2016, hanno ottenuto lo status di rifugiato in Ecuador. Superata la frontiera, si raggiunge il porto sicuro dove approda chi è costretto a fuggire e cerca di ricostruire una nuova vita, segnata spesso da violenza e dolore. La tranquilla Ibarra, distando solo 3 ore dal confine colombiano, è una delle mete privilegiate. Arrivati in Ecuador, come quasi tutti i loro connazionali, Lorena e la sua famiglia hanno vissuto serie difficoltà a trovare un posto dove stare. “Non si affittano case ai colombiani” ci hanno raccontato molte famiglie. Figuriamoci poi quando sei alla ricerca di un alloggio senza soldi e con sei figli.
Questa volta Lorena deve lasciare l’autolavaggio dove viveva da sola, perché suo marito dopo averla picchiata e aver venduto il carretto che usava per vendere succhi di frutta, l’ha abbandonata. Le storie di vita che ascoltiamo qui a volte sono tanto assurde, che della realtà a cui siamo abituati non hanno neanche l’ombra. La tragedia si somma alla vulnerabilità. Questa é stata una delle tante giornate lavorative che durano più di 10 ore, ma mai come quest’anno sono arrivata alla sera tanto stanca quanto soddisfatta di aver fatto del bene.
Credo sia parte del nostro servizio anche l’essere un appoggio certo su cui poter contare. Esserci sempre, anche in quegli spicchi di vita quotidiana al di fuori del “protocollo” nei quali gli ufficiali dell’UNHCR, purtroppo, non entreranno mai.
Io e Giovanni siamo ad Ibarra come Corpi Civili di Pace per conto del CESC Project, in un nuovo programma della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù e del servizio civile nazionale (DGSCN). Arrivati qui, come molti dei nostri compagni sparsi per il mondo, “cavie” di questo esperimento governativo, avevamo inizialmente difficoltà a definirci. Ufficialmente appoggiamo famiglie rifugiate e le assistiamo nella parte legale, educativa e sanitaria. Nella pratica, facciamo in modo che una persona che arrivi qui completamente traumatizzata e persa, possa sentirsi presa sotto braccio e non da sola. Camminiamo insieme: così si chiama il nostro progetto. Ciò significa anche ritrovarsi ad aiutare durante un trasloco, accompagnare a fare la spesa, sporcarsi le mani in una minga di pulizie, aiutare a fare le lavatrici, insegnare come si preparano le orecchiette, organizzare gite e attività di diversione per i bambini, fare in modo che i compiti siano una regola e la loro salute a posto; essere ponte e scudo per la discriminazione e la violenza che subiscono dentro e fuori la scuola, convincendo a denunciare, parlando con docenti e presidi e tornando a sedersi tra i banchi minuscoli di un’aula di scuola.
Mentre scarichiamo i primi scatoloni dalla macchina, Maikol mi dice che con il suo maestro va un po’ meglio, ma i compagni continuano a picchiarlo e gli dicono “ladrón” quando non si trovano le cose in classe. La discriminazione è fortissima e, la maggior parte delle volte, continua a fare il lavoro delle armi che queste persone pensano di aver lasciato alle loro spalle. Ferisce nel profondo. Umilia. Ti fa sentire impotente e piccolo. Questo è il muro più difficile con cui ci imbattiamo ogni giorno. “Voi siete stranieri vero?” ci dice un professore all’ultima riunione. Per lui, due italiani e una colombiana (la mia squadra di lavoro) non avrebbero mai potuto capire come funzionava il loro sistema educativo, che per il diritto internazionale dovrebbe comunque essere universale e non discriminatorio. Quel giorno, durante la riunione, ho perso il conto di quante volte sia uscita dalla bocca degli adulti la parola “conflitto”.
Siamo soliti pensare al conflitto come lo scontro armato di due parti che lottano per interessi differenti. Ma é molto, molto più profondo dello scontro armato. Si trascina nella vita delle persone, nelle loro relazioni sociali, nella difficoltà di abbandonare la paura e la sfiducia del prossimo, nelle scelte obbligatorie ed a volte dolorose che si è costretti a prendere, nella separazione da ciò che più amiamo: la nostra famiglia, la nostra casa, la nostra terra, i nostri amici, il nostro cibo, i luoghi in cui siamo cresciuti. Il post conflitto sembra essere un terreno minato, completamente secco e senza vita; dove, in punta di piedi, quella vita bisogna cercare di ripiantarla. Seminare, ricostruire e ricucire. La parte del post é tanto delicata quanto quella dello scontro.
In realtà, anche se la comunità internazionale ha celebrato la sua fine con la firma degli Accordi di Pace tra il Governo colombiano e le FARC-EP il 24 novembre 2016, il conflitto in Colombia non è affatto terminato. Le persone che arrivano qui, la guerra, che é a due passi da noi, ce l’hanno fresca negli occhi.
Una volta una persona mi disse che date ed orari rimangono impressi, quando sono collegati ad eventi forti che ci segnano. E’ vero. I racconti di chi ha vissuto uno stupro, una minaccia, una fuga, un assassinio di una persona cara, sono sempre riccamente dettagliati in ora, colori, odori, vestiti indossati, e a questo si somma il calcolo preciso dei giorni trascorsi da quando si è lasciato il paese. “Da quanto tempo sei qui?” è una tra le domande che si fanno durante i primi incontri conoscitivi. “Centoventinove giorni”. Alla domanda, pensi di ricevere una risposta in mesi, anni, settimane. No, quasi tutti rispondono in giorni. “Sessantacinque giorni”, “Quarantatre giorni”, “duecentotrentasette giorni”. Immagino queste persone svegliarsi la mattina ed aggiungere un’altra unità al loro conteggio.
Gli adulti contano i giorni, così come i bambini contano le cose. Scarichiamo dalla macchina una busta di panni. “Tu quanti pantaloni hai?” mi chiede Nicole. La verità, non lo so. Sicuramente sufficientemente tanti, se non mi sono mai dovuta porre questa domanda. Mi ha ricordato tanto suo fratello Miguel, 9 anni, che mi urla contento di avere “ben 9 matite colorate” . Dall’Italia, grazie al generoso contributo di tante persone, abbiamo raccolto giocattoli, materiale scolastico e vestiti. Anche per loro. A scuola una maestra ha umiliato Lorena perché non capiva come i bambini potessero permettersi di comprare vestiti di marca e non una divisa. Le sei divise scolastiche, obbligatorie nelle scuole ecuadoriane, valgono l’equivalente di un salario base e l’insegnante non lo sapeva, che tutti i bei vestiti che i bambini indossavano quel giorno, gli erano stati donati.
Siamo arrivati in un periodo in cui il fenomeno migratorio in questa regione attraversa un momento storico: non solo la firma degli Accordi di Pace in Colombia, ma anche quella della nuova Legge migratoria approvata dall’Assemblea Nazionale ecuadoriana il 5 gennaio 2017. Entrambi rimandano all’eliminazione dello status di rifugiato nel territorio ecuadoriano e alla graduale riduzione degli aiuti internazionali presenti nel territorio. Gli aiuti si riducono, ma le persone che chiedono aiuto aumentano. Da gennaio a settembre del 2017, ovvero nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore degli Accordi, il numero di richiedenti asilo colombiani è aumentato del 30% rispetto allo stesso periodo del 2016.2 Dal nostro arrivo a giugno 2017, circa sette mesi dopo la firma degli Accordi, il flusso di migranti dalla Colombia (e poi anche massivamente dal Venezuela) non si è mai fermato. Probabilmente, anche se mancano delle stime ufficiali di dominio pubblico da parte delle organizzazioni di competenza, si è triplicato. Soprattutto nel sud del Colombia, l’abbandono dei battaglioni FARC-EP ha paradossalmente favorito e fomentato la disputa tra nuovi gruppi armati illegali che seminano violenza per il controllo dei traffici criminali nei territori di antico controllo guerrigliero. Ciò si è tradotto in un flusso senza pausa attraverso la frontiera andina ed amazzonica, le cui file durano anche sette ore. Così abbiamo deciso di investigare su ciò che vedevamo quotidianamente, raccogliendo testimonianze, dati, interviste, storie che confermano che in questo momento c’è bisogno di aiuto, e che questo aiuto non deve finire.
Osservare, riconoscere, rilevare, analizzare, e condividere situazioni di conflitto, ma soprattutto ascoltare. Questo ci era stato detto in formazione e così abbiamo fatto. Abbiamo ascoltato tantissime storie cercando di buttare giù il magone mentre, guardando in fondo tantissimi occhi di uomini e donne, questi si riempivano di lacrime. Le storie di quasi tutte le parti in campo: il parere delle istituzioni, il vissuto di tantissimi migranti e rifugiati colombiani, le testimonianze di ex guerriglieri, gli sfollati interni del conflitto colombiano. Persone che non si conoscono, eppure si nominano, a volte si odiano e le cui vite si incrociano. Lorena mi dice che questa cosa della “pace” è tutta una buffonata. Alcune ex guerrigliere farchiane mi raccontano che erano entrate ad arruolarsi perché tutta la loro famiglia era stata sterminata dai paramilitari. Nel racconto di una ex guerrigliera M-19 lo Stato aveva fatto sparire e assassinare suo marito. Alcuni desplazados dai guerriglieri, che non credono nel “perdono”; e che, soprattutto, nessuno è mai andato da loro a chiedere scusa. Una storia tanto complessa che anche riuscire a dare una definizione univoca di vittima risulta difficile. Ce ne sono troppe.
In questo campo minato di distruzione, ricucire il tessuto sociale diventa la scommessa più grande su cui puntare; mettere al centro le persone, che non sono solamente cifre, ma storie. Avvicinare fratelli dello stesso paese divisi tra loro, ma vittime dello stesso Stato, popolazioni e culture differenti costrette a convivere. Favorire percorsi di accompagnamento che possano attivare l’integrazione e stimolare la riconciliazione nei cuori pieni di rabbia e risentimento di tutti quegli esseri umani che vivono senza un posto nel mondo. Solo con il perdono può crearsi la pace, che deve però andare sotto braccio con la giustizia sociale.
Spero che il mio paese, soprattutto all’inizio di un nuovo governo, continuerà ciò che ha iniziato investendo in programmi come questo. Perché, specialmente in questo tempo nel quale tanti migranti senza un posto nel mondo arrivano a bussare alla nostra di porta, sono poche le volte nel quale mi sento fiera di rappresentarlo.
[1] https://www.amnesty.org/es/countries/americas/colombia/report-colombia/
[2] https://lahora.com.ec/tungurahua/noticia/1102122675/pese-a-acuerdo-de-paz-hay-30_-mas-de-solicitantes-colombianos-de-refugio-en-ecuador
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