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Caschi Bianchi Ecuador

Storia di un Paese chiamato Venezuela, e dei suoi cittadini espatriati in Ecuador, in cerca di un futuro migliore

Isabella, che da circa tre mesi sta svolgendo servizio civile a Quito, ha deciso di raccontarci due storie: la prima è quella di “un bel Paese, chiamato Venezuela, dove un tempo la gente viveva spensierata e benestante mentre oggi rischia la vita per un filone di pane”; la seconda è la storia di alcune persone che hanno deciso di lasciare quel “bel” Paese, costrette da fame e violenza a fuggire verso i Paesi limitrofi, in cerca di una vita migliore.

Scritto da Isabella Mercone, Casco Bianco FOCSIV a Quito

1. Storia di un bel Paese chiamato Venezuela, dove un tempo la gente viveva spensierata e benestante, mentre oggi rischia la vita per un filone di pane

Secondo Wikipedia, il Venezuela è una repubblica federale e democratica situata in America Latina. La sua capitale è Caracas, la lingua ufficiale è lo spagnolo e la moneta corrente è il bolivar. Secondo le conoscenze attualmente disponibili, il Venezuela dispone di una grande biodiversità ecologica, di bianche spiagge da sogno e del più grande giacimento petrolifero al mondo.
Per anni, il Venezuela è stato meta di migrazione per italiani, spagnoli e portoghesi, che si dirigevano verso questo Paese in cerca di un futuro migliore, attirati dalle ricchezze e dalla spensieratezza della sua terra.
Questo è stato il Venezuela… fino a pochi anni fa. Oggi, purtroppo, non è più così.
Oggi, ciò che resta del Venezuela non è che lo scheletro del Venezuela che fu: un Paese povero, corrotto e insicuro, che non è più in grado nemmeno di garantire ai propri cittadini il rispetto dei loro diritti umani più fondamentali, come il diritto alla vita e all’incolumità personale, alla salute e all’istruzione. Un Paese dove regnano violenza generalizzata e corruzione, dove mancano le medicine e la carta igienica, dove un chilo di farina vale come mezzo stipendio minimo… Per non parlare della carne, per la quale si possono fare 8 ore di fila…per poi scoprire che quello che ti è appena stato venduto a prezzo d’oro non è altro che un pezzo di carne già andata a male.

Nel Venezuela odierno, milioni di persone rischiano la vita ogni giorno: alcuni perché si sono schierati contro il governo in carica, e per questo motivo sono diventati obiettivo di un’aspra persecuzione politica; altri perché vivono in quartieri pericolosi, dove bande armate e delinquenti si spartiscono il territorio per il controllo dei traffici illegali, e dove la stessa polizia chiede una specie di “pizzo” ai commercianti.
Gli altri, che costituiscono la maggioranza dei venezuelani, non possono uscire di casa per fare quattro passi o fare la spesa, per paura di essere aggrediti e derubati da altre persone, costrette a tanto dalla fame e dalla povertà che stanno attanagliando il Paese. D’altra parte, ogni volta che lasciano la loro dimora incustodita per più di un paio d’ore, i Venezuelani sanno che al loro ritorno potrebbero trovarla saccheggiata di ogni tipo di bene.
Questo è ciò che ho letto ultimamente nei principali giornali di stampa internazionale (New York Times, The Guardian, El Pais), ma soprattutto ciò che mi hanno raccontato alcuni dei tanti venezuelani arrivati in Ecuador negli ultimi mesi, in cerca di speranza. Ed è proprio a loro che è dedicata la seconda parte di questa storia.

2. Storie di venezuelani espatriati in Ecuador in cerca di una vita migliore

Il Ministero degli Interni ecuadoriano calcola che tra gennaio 2017 e gennaio 2018 siano entrati in Ecuador più di 350.000 venezuelani. La maggior parte di loro arriva qui via terra, dopo tre-quattro giorni di viaggio in bus, ore e ore in coda alla frontiera, prima al confine tra Venezuela e Colombia, poi tra Colombia ed Ecuador. Oltre al costo del viaggio e all’estenuante attesa per attraversare la frontiera, bisogna anche tenere in conto il pericolo di essere sequestrati o arruolati dalla guerriglia colombiana.
Dei 350.000 venezuelani entrati in Ecuador nell’ultimo anno, circa 270.000, ossia la stragrande maggioranza, hanno deciso di proseguire il loro viaggio verso Perù, Cile o Argentina, dove li aspettano amici e familiari; gli altri, circa 70.000, si sono invece fermati qui per spontanea volontà o perché non avevano più soldi per continuare il viaggio.
I più fortunati riescono a venire con tutta la famiglia, dopo mesi di attesa per ottenere il passaporto e dopo aver racimolato la somma necessaria a coprire i costi del viaggio. Altri partono soli, poi per la strada conoscono altre persone, che stanno facendo il loro stesso tragitto, e diventano compagni di viaggio con cui condividono pasti, avventure, ricordi e speranze. Molti lasciano dietro di sé mogli, genitori e figli con la speranza di poter iniziare a lavorare e a guadagnare i soldi da mandare là per cibo, medicine e, non appena sarà possibile, i biglietti con cui lasciare il Paese.
Quando arrivano qui, molti sono ormai sottopeso, e quasi tutti mi raccontano di aver perso almeno una o due taglie nell’ultimo anno, essendo costretti a saltare i pasti anche per due giorni di fila per poter dare da mangiare ai propri figli.
Non appena arrivati, la maggior parte di loro si mette in cerca di un lavoro e di un tetto sotto cui stare. Se prima a migrare erano soprattutto le persone con maggiori capacità economiche e titoli di studio universitari, ora stiamo assistendo a una vera “ondata di massa”, formata da un eterogeneo gruppo di studenti, negozianti, contadini, professori universitari, politici, imprenditori, ingegneri automobilistici, militari ed ex funzionari di governo. Quasi tutti accomunati da un forte senso di sfiducia nei confronti del governo (corrotto) e incapaci di portare avanti la famiglia con un salario mensile di circa 20 euro e un’inflazione del 4000%, giungono qui con la speranza di rifarsi una vita e mandare soldi alla famiglia in Venezuela.
Ogni giorno si incontrano in giro per Quito decine di venezuelani che passano le giornate vendendo biscotti e gomme da masticare sui bus e agli angoli del centro, gridando “A la orden, Manicho Manicho, a 30 centavos, dos a cincuenta centavitos!” – “Per ordinare, Manicho Manicho, a 30 centesimi, due a 50 centesimi!”. Con quel che guadagnano cercano di pagare l’affitto di una stanzetta, e il resto lo mandano in Venezuela, per aiutare amici e familiari che non sono potuti partire. Quei pochi soldi che riescono a racimolare, che qui in Ecuador non sono altro che “spiccioli”, in Venezuela possono servire alla famiglia per fare un pasto in più e comprare medicine ormai introvabili…se non al mercato nero.
Molti di loro sono laureati o plurilaureati, ex professori o imprenditori, che qui non possono esercitare la loro professione perché l’apparato burocratico del loro Paese è al collasso, e da un paio di mesi non è più in grado di autenticare i titoli di studio e documenti ufficiali di tutti i suoi cittadini che stanno espatriando. Così si ritrovano a vendere per strada arepas e caffè, acqua e succo, per pochi centesimi la porzione, oppure s’improvvisano camerieri o imbianchini, pur di lavorare.
Purtroppo, sono già emersi molti casi di venezuelani sfruttati e sottopagati, soprattutto nel settore edile e nella ristorazione. I titolari dell’impresa approfittano della necessità dei venezuelani e li fanno lavorare anche 12-14 ore al giorno, sette giorni su sette per una paga di 4-5 dollari al giorno se va bene (varie persone mi hanno raccontato di aver lavorato per due settimane in un ristorante o in un cantiere edile e di non essere ancora state pagate, a mesi di distanza).
Anche la discriminazione è un problema concreto, che molti di loro devono fronteggiare ogni giorno.
Per fortuna, molti sono dotati di un forte spirito d’iniziativa e adattabilitá e sanno reinventarsi come pasticcieri a domicilio, venditori ambulanti o babysitter.
Come si dice: “Il bisogno aguzza l’ingegno” e così, mi è già capitato di conoscere un paio di persone che hanno fatto fortuna con una semplice idea nata dal nulla ed ora stanno espandendo la loro attività, cercando di dare lavoro ad altri connazionali, che come loro sono venuti qui da poco e faticano a trovare un lavoro “degno”.
Inoltre, molti di loro conoscono il detto “L’unione fa la forza” e non esitano ad aiutarsi l’uno con l’altro sia nella ricerca di un impiego sia curando i figli di amici o fratelli mentre questi lavorano. Anche dal punto di vista dell’accoglienza, la maggior parte dei venezuelani è solidale coi connazionali e dà ospitalità ad amici e conoscenti appena arrivati nel Paese, finché non trovano una stanza da affittare per conto proprio. Certo, mi è capitato di sentire di casi in cui 12-13 persone vivono tutte assieme in un appartamento, in una o due stanze, ma in genere la convivenza è positiva e tutti cercano di dare una mano come possono.
Infine, è impossibile non notare la loro riconoscenza nei confronti nostri (dei volontari e dipendenti di HIAS, la ONG con cui sto lavorando che assiste rifugiati e richiedenti asilo) o di chiunque li aiuti, nella ricerca di un lavoro o di una stanza, o anche semplicemente comprando loro un dolcetto o un caffè.

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