Ma ho dovuto aspettare 7 mesi per rendermi conto dell’esplosione di colori che la stagione delle piogge è in grado di scatenare qui, a quasi 1700 metri di altezza, in questa valle circondata dai monti.
Le tonalità di verde sono infinite ed è sorprendente scoprirne di nuove ogni giorno. Siamo abituati nel nostro immaginario a pensare all’Africa come ad un luogo arido, secco e risulta difficile credere che ci possano essere tante sfumature di colore e che le temperature possano scendere così in basso da obbligarci ad indossare maglioni di lana. Sì proprio di lana.
Sebbene sia la terza città della Tanzania per estensione, qui si concentra tutto lungo la strada asfaltata che dal villaggio di Uyole arriva fino a Mbalizi, il primo villaggio del distretto della città. E’ un susseguirsi di campi di mais, fagioli, caffè e persone. La vita si svolge in strada tra un venditore ambulante, un predicatore, tra bambini che rincorrono un copertone, mucche e capre.
E’ in strada che si concludono affari, che ci si incontra per caso, che ci si scambia saluti con sconosciuti che possono durare diversi minuti. In fondo c’è sempre tempo per ascoltare le notizie sulla famiglia e la vita di un passante.
Questo è quello che osservo ogni giorno durante gli interminabili viaggi in daladala, mini autobus locali che ti portano in giro per la città, adatti a trasportare una quindicina di persone ma che in qualche modo riescono a contenerne almeno il doppio con l’aggiunta di polli, enormi sacchi e secchi stracolmi.
Sono tornata in Tanzania dopo 7 anni dalla prima volta convinta di aver visto già quasi tutto di questa terra. Ma avevo scordato cosa volesse dire camminare per le strade e sentirsi gli occhi costantemente puntati addosso per via del colore della mia pelle, io una delle poche mzungu (bianca) per le strade di Mbeya. Qui è praticamente impossibile passare inosservati ed ogni nostra mossa viene notata e registrata; così è normale andare via per qualche giorno, tornare e sentirsi chiedere dalla signora che arrostisce pannocchie vicino casa o dall’autista di bajaji (ape-taxi) che fine tu abbia fatto. Così come è normale non dover neanche più chiamare la fermata dell’autobus perché oramai tutti i konda (controllore) della città sanno dove abitiamo. Non ci sono segreti per una mzungu tra le strade di questa città.
In questi 7 mesi non sono cambiati solo i paesaggi, arricchendosi di file di granturco e girasoli, abbiamo anche raccolto i primi frutti del nostro progetto dei Corpi Civili di Pace, un progetto complesso non solo per la sua novità, ma anche per la tematica che affronta: l’albinismo in Tanzania.
Essere un albino in Africa.
Mi sono chiesta molte volte cosa si potesse provare ad essere un un albino in africa, un nero bianco. Un ossimoro che pesa come un macigno in una terra ancora piena di superstizioni e credenze popolari.
Essere albini in Africa significa non potersi mai togliere di dosso gli occhi indiscreti di chi pensa che le persone affette da albinismo siano dei fantasmi che non muoiono mai ma svaniscono magicamente nel nulla, di chi pensa sia una condizione contagiosa, di chi pensa di potersi arricchire bevendo pozioni fatte con parti dei loro corpi.
Essere albini in Africa significa doversi proteggere quotidianamente contro il caldo sole equatoriale che ti brucia e ustiona la pelle e ti costringe ad indossare grandi cappelli e abiti lunghi.
Essere albini in Africa significa dover vivere in una situazione di esclusione sociale e discriminazione dovuta alla sola differenza del colore della pelle.
Una differenza che risiede nella sola percezione che ognuno ha di tutto ciò che è diverso da lui.
Una cosa è certa in questi 7 mesi ho imparato ad apprezzare tutte le sfumature di colori che i paesaggi e le persone hanno saputo regalarmi perché come recita una vecchia canzone dei 99 posse “C’è il bianco, il nero e mille sfumature di colori in mezzo e lì in mezzo siamo noi”.
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