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Corpi Civili di Pace Ecuador

Canto di Natale di una rifugiata

A Cucutá, in Colombia, non sanno cosa sia il freddo. Le temperature si aggirano tutto l’anno fra i venti e i trenta gradi centigradi, in un’eterna primavera dove soltanto l’intensificarsi delle piogge nei mesi autunnali tradisce il trascorrere del tempo. Si può quindi immaginare la sorpresa di Liliana quando, aprendo la porta di casa, si sentì rabbrividire. Non di freddo, ma di paura.

Scritto da Marco Dalla Stella, Corpo Civile di Pace con FOCSIV

Sullo zerbino di casa aveva trovato un gatto cui era stata tagliata la gola. Sull’asfalto il sangue dipingeva una scritta. Sappiamo dove abiti.

Tre mesi erano trascorsi dall’omicidio del fratello. Tre mesi da quando sua madre si era messa sulle tracce dei responsabili fregandosene dei consigli di chi la invitava a lasciar perdere. Testarda e determinata come forse solo le madri colombiane sanno essere aveva iniziato a fare domande attorno alla cerchia di suo figlio: agli amici, ai vicini di casa, ai venditori ambulanti. Poco alla volta dai silenzi si passò ai cenni, dai cenni ai sussurri, finchè i sussurri non lasciarono posto alle parole. Quando finalmente la verità emerse, lo fece con indosso passamontagna e tuta mimetica.

Paramilitari. Piccoli eserciti irregolari che per una manciata di pesos in più venderebbero l’anima al diavolo, ammesso che ne abbiano una.

Il fratello di Liliana doveva essersi era cacciato in un gran bel guaio. O forse si era solo trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato – in Colombia tra le due cose non c’è poi tutta questa differenza. Fatto sta che quando la verità venne a bussare con guanti di cuoio alla porta di Liliana e dei suoi genitori era chiaro che nulla sarebbe più stato come prima.

Lasciarono casa la notte stessa. Liliana chiuse per la prima volta la sua vita in una valigia e seguì i suoi genitori. Andarsene, e in fretta anche. Sì, ma dove? Cali. Lì avevano un appoggio, una casa da cui ripartire in una città più grande, con più possibilità.

Durò giusto il tempo di una primavera.

Strane macchine iniziarono a fare la ronda fuori casa di Liliana e dei suoi genitori a Cali. Era una calda giornata di luglio quando dal finestrino di una di queste un uomo sulla trentina si avvicinò indice e medio agli occhi prima di rivolgerli verso Lilana, pietrificata. «Ti teniamo d’occhio», sembrava dire.

Assieme alla serenità anche il sonno perse la via di casa. Uscire divenne un atto di coraggio quasi sconsiderato, al punto che a ogni passo della strada che conduceva al negozietto più vicino Liliana sentiva che il cuore le si sarebbe staccato dal petto.

Fu una nuova scritta rossa, stavolta in vernice, a convincerli a ripartire. Pensavi di poter scappare?.

Via, di nuovo. Vita in valigia e culo sul pullman. La Colombia non era più sicura. Sarebbero andati più lontano, avrebbero attraversato il confine. Questa volta sarebbero andati in Venezuela.
E ci rimasero, in Venezuela.

Tre anni. Un tempo sufficiente per fare propria la parlata aspirata della gente di là, trovare un uomo, sposarlo, avere due figli, separarsi e trovarne  un altro meno manesco. La vita di campagna gli piaceva e anche gli affari andavano piuttosto bene. Anche la vacuna, il vaccino (come da queste parti chiamano il pizzo), era vissuta come un’accettabile tassa sulla tranquillità.

A stravolgere nuovamente la vita di Liliana fu questa volta una diagnosi. Il figlio primogenito era affetto da una rara forma di autismo e le cure di cui aveva bisogno erano piuttosto costose. Quando il prezzo richiesto per lasciarli in pace divenne troppo alto per continuare le terapie fu chiaro che era tempo di ripartire. Le acque, si diceva Liliana, si saranno ormai calmate; già da qualche mese i suoi genitori avevano fatto ritorno a Cali. Li avrebbe raggiunti, così i figli avrebbero visto il paese in cui è cresciuta loro madre e conosciuto la cultura paisá.

Liliana giunse a Cali con figli appresso giusto in tempo per sapere dell’omicidio del cugino. Il passato era ancora lì, come un fantasma rimasto ad infestare la casa di qualche vecchio film dell’orrore. I telefoni presero a squillñare a tarda notte e ogni volta una voce ripeteva gli stessi messaggi di morte: «Perché sei tornata?», «Ci prenderemo ciò che hai di più caro».

Restare era troppo pericoloso, ma di tornare in Venezuela nemmeno a parlarne. Fu così che Liliana mandò i figli a nascondersi in campagna con i genitori, mentre lei avrebbe lasciato nuovamente la Colombia in cerca di una nuova vita. Stavolta, destinazione Ecuador.

«Ero già stata a Quito in vacanza col mio compagno dell’epoca. Mi era sembrata una città bella, tranquilla. Non avrei mai pensato di tornarci in queste condizioni».

Incontro Liliana in uno sgangherato ostello nel centro di Quito. «Vivere qui mi costa poco più che affittare una casa, ma almeno non ho bisogno di comprare letti, lenzuola o frigorifero».

All’inizio, mi dice, non fu affatto facile. I figli erano in Colombia con i nonni, il suo compagno lontano in Venezuela. Dovette reinventarsi una vita: da sola, da rifugiata. La sua esperienza come contabile in quel contesto valeva ben poco ma si ricordò delle ricette che vedeva preparare a sua madre, cuoca di professione. Dopo i primi mesi di sconforto Liliana si rimboccò le maniche. Aiutante di cucina, 12 dollari al giorno. Poco, ma almeno è qualcosa. Presto depressione e angoscia lasciarono spazio alla determinazione e alla convinzione di potercela fare.

Grazie all’intervento di HIAS Liliana ha potuto acquistare un forno industriale con cui prepara i dolci che mille volte ha cucinato sua madre. Una volta pronti, elargisce assaggi gratuiti in tutti minimarket del quartiere che poi, entusiasti, la ricoprono di ordini. Al dolce ha poi aggiunto anche il salato, con delle empanadas paisá che vende con eccezionale carisma.

Da qualche mese Maria è riuscita a far arrivare a Quito i suoi figli ed é fiera di dirmi che sono tra i primi della classe. Quando è arrivato il Natale ha cucinato un pranzo coi fiocchi per tutti gli sventurati ospiti dell’ostello, preparando con amore tamales, pan de jamón e una grande, buonissima torta. La tavola era addobbata fin nei particolari e quasi le brillano gli occhi quando mi mostra la foto del grande vaso portafiori messo a centrotavola, ricavato da una bottiglia di Gatorade.

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