La mia scelta di partire per un’esperienza come il Servizio Civile Nazionale, a pochi mesi dalla mia laurea in Relazioni Internazionali, derivava da una consapevolezza ben precisa, ovvero il bisogno di essere attiva sul campo, di entrare in contatto con la gente, di sentirmi utile. Allo stesso tempo, mi rifiutavo di immaginare un tirocinio in un ufficio, quasi una naturale conseguenza dei miei studi, perché il solo pensiero mi dava la sensazione di saltare qualche passaggio fondamentale nel mio percorso formativo.
Questa è la piccola storia dietro alla mia partenza come Casco Bianco in Serbia, precisamente a Šabac, cittadina di circa centomila abitanti a ovest di Belgrado, dove vivo da ottobre e dove vivrò per un anno, “ospite” di Caritas Šabac, una realtà locale dinamica e ben radicata nel territorio.
Come ogni nuova esperienza, il periodo prima della mia partenza è stato caratterizzato da mille aspettative e preoccupazioni: la Serbia, infatti, non era stata la mia scelta, sapevo che sarei partita da sola, con un altro collega presente a Valjevo, più a sud, e soprattutto non avevo idea di che realtà mi stesse aspettando. Quando si parla dei paesi della ex Jugoslavia, infatti, la confusione storico-politica fa da padrona, anche per una scienziata politica come me e, a meno che non si scelga di specializzarsi appositamente in questa area geografica, la narrativa prevalente, e molto sommaria, è che dopo la morte di Tito sono emersi una serie di sanguinosi conflitti. Si parla spesso di “pulizia etnica”, senza nemmeno spiegare quali etnie vivessero in quei luoghi, come fossero distribuite, i passi storici che hanno effettivamente portato ai conflitti, e gli eventuali strascichi che tale situazione sta avendo nel presente. Nella mia valigia, quindi, avevo messo qualche libro per cercare di recuperare le mie lacune, indumenti per temperature invernali rigide e la moka per il caffè: sapevo poco del luogo in cui stavo andando, è vero, ma allo stesso tempo mi sentivo tranquilla perché, inconsciamente, la relativa vicinanza geografica della Serbia mi aveva fatto sottovalutare i possibili traumi da impatto, traumi su cui eravamo stati ampiamente preparati al corso di formazione di Caritas Italiana a Roma, prima della partenza.
Appena ho messo i piedi fuori dall’aeroporto “Nikola Tesla” di Belgrado, tuttavia, ho subito realizzato che i Balcani mi avrebbero riservato tante sorprese e, soprattutto, che anche se ero a un’ora e mezza di volo da Roma, il posto che sarebbe diventato casa mia per un anno era sicuramente diverso da tutto quello a cui ero stata abituata fino a quel momento. E’ vero, le capitali molto spesso sono una bolla a sé stante e non rispecchiano la vera anima di un Paese e questo, in una certa misura, vale anche per Belgrado. Si tratta infatti di una città in profondo cambiamento, che si rinnova e cresce a ritmi visibilmente elevati, una città frenetica, piena di traffico e di cantieri, di locali e di eventi. Tuttavia, la sensazione di essere “estranei” a quel mondo, arriva nel giro di qualche ora: salta all’occhio il doppio uso dell’alfabeto cirillico e di quello latino, che convivono o prevalgono ad alternanza nelle strade della città, mentre si capita in quartieri interamente formati da palazzi grandi, grigi e tristi, di palese derivazione comunista; se si sceglie di mangiare fuori, si deve essere preparati alla musica dal vivo al tavolo, ai ristoranti densi di fumo di sigaretta, alla fortissima rakija serba offerta ad ogni occasione, a pagare in dinari. Una menzione a parte meriterebbe la lingua, ostica e di difficile comprensione, che rende difficile azioni semplicissime come andare a fare la spesa o comprare un biglietto per il bus.
Penso però di aver scoperto un pezzettino di “vera Serbia”, allontanandomi da Belgrado, dopo qualche giorno e dopo aver conosciuto i vari colleghi di Caritas Belgrado e Caritas Serbia. Tra pianure destinate alle coltivazioni, dolci profili collinari e villaggi fatti di casette basse e trattori nelle poche strade disponibili, ho cominciato a cogliere le contraddizioni di questo paese, dove la vita costa pochissimo, le persone che hanno lavorato all’estero tornano a costruire case palesemente esagerate, dove c’è gente che vive di poche centinaia di euro al mese e non trova accesso ai minimi servizi assistenziali. A poco a poco, il viaggio ha smesso di essere solo un viaggio nuovo in un posto nuovo, ed è diventato anche un viaggio attraverso le persone, sia per la natura del mio progetto, sia perché ci sono cose che qui toccano l’anima senza che si riesca nemmeno a realizzarlo.
A questo punto, penso sia arrivato il momento di descrivere brevemente il mio progetto e le attività che questo prevede. Caritas Šabac si è sviluppata molto sul modello italiano, e con l’Italia mantiene infatti dei legami molto forti. E’ una realtà che riesce a coniugare assistenzialismo e economia sociale e che tenta di promuovere nuovi approcci al miglioramento della società e della situazione di chi si trova ai margini di essa. Per questo prevede un articolato programma di assistenza domiciliare alle persone che vivono anche nelle municipalità vicine, soprattutto anziane, e che hanno difficoltà a raggiungere e ad accedere ai servizi per la loro salute; vi sono anche tre lavanderie che impiegano donne in difficoltà socio-economiche, un Centro di ascolto e un Centro diurno per persone che hanno problemi mentali, di tutte le età. Il problema della salute mentale è infatti ancora molto rilevante nel Paese, e gli approcci sono ancora rigidi, poco umani, tendenti all’isolamento piuttosto che all’inclusione; la percentuale di persone con questo tipo di problemi, in un paese che è stato protagonista di conflitti fino a una ventina di anni fa, è elevata, ma allo stesso tempo riceve risposte inadeguate: per queste persone, considerate un peso per le famiglie e la società in generale, si preferiscono l’ospedalizzazione, le sbarre alle finestre, i trattamenti duri. La promozione di un nuovo approccio si è rivelata quindi indispensabile e rispondente ai più basilari principi di umanità solidarietà e dignità per tutti.
Di conseguenza, la mia attività si è concentrata fin da subito nel Centro di ascolto e in quello diurno, oltre che in ufficio. Sarebbe superfluo dire che, senza alcun dubbio, il Centro diurno è quello che mi ha creato più difficoltà e interesse allo stesso tempo, che mi ha fatto scoraggiare ma contemporaneamente sentire parte di un qualcosa di veramente utile. Nel giro di pochi giorni, una piccola casa costruita in una manciata di mesi, colorata e accogliente, è diventata il mio luogo di lavoro: il centro riceve circa 15 utenti ogni giorno e li tiene impegnati per svariate ore con varie e differenti attività: ginnastica, produzione di alimenti, creazioni artistiche, momenti di discussione e riflessione, dove ognuno ha il proprio spazio per esprimersi, giochi. E’ uno spazio pieno di armonia, dove tutti hanno una qualche responsabilità e vengono trattati come persone “normali”: qualcuno si occupa della pulizia degli spazi, altri di preparare il caffè per tutti, altri ancora cucinano, i più “irrequieti” si rilassano sul divano a guardare la televisione o comporre un qualche puzzle. La profonda umanità e serietà mi ha colpita fin dal primo momento: viene preso tutto con estrema serietà, senza però dimenticarsi di ridere, di abbracciarsi, di preoccuparsi per situazioni particolarmente difficili. Questo non è scontato né facile, perché si tratta di persone con problemi diversi, passati difficili e presenti complicati, che molto spesso regalano scarse e aride speranze per il futuro. Nel centro, io tengo un corso d’italiano, che entusiasma gli utenti, anche se a volte trovare una compatibilità tra inglese, italiano e serbo non è facilissimo. Sono stata accolta con una semplicità e un affetto che mi hanno colpita, e che mi sono trovata a ricambiare nel giro di qualche ora; non si tratta di un lavoro facile, a volte si torna a casa scoraggiati e stanchi, ma la volta dopo si ritorna più carichi di prima.
Oltre le difficoltà nella vita lavorativa, si sono aggiunte sicuramente quelle nella sfera privata: vivere da sola, senza nessuna persona con cui confrontarmi a fine giornata, ha reso il primo periodo profondamente complicato, pieno di ripensamenti. Mi aggiravo per le strade senza riconoscermi in nessuna insegna di alcun negozio, a convertire mentalmente ogni prezzo, con un profonda sensazione di solitudine, accentuata da un autunno grigio e freddo. Guardarsi intorno, in Serbia, significa scorgere una tristezza e una malinconia di fondo, che si esprime attraverso gli occhi della gente, che si è fatta monumento in palazzi grigi e che si tramanda nei discorsi sulla guerra. E’ impossibile non cogliere questa patina opaca che è calata su cose e persone, e che è accentuata dalla povertà e da un profondo senso di rassegnazione. Non è facile parlare di politica, ognuno ha la propria idea della guerra, del Kosovo, la propria storia; tutti hanno subito delle perdite, tutti hanno sofferto del dolore: quando si parla con la gente normale, parlare di colpevoli e colpiti perde senso, perché ognuno è pronto a raccontarti una storia sulla propria sofferenza; astenersi dal giudizio è quindi diventato indispensabile. In Serbia, inoltre, si coglie una sorta di vittimismo e auto-colpevolizzazione che porta la gente a ripetere spesso e volentieri “come puoi vedere non siamo tutti violenti, siamo delle persone normali”.
E’ stato quindi necessario farmi strada in questa coltre densa, piena di strascichi del passato e di un futuro ancora bloccato, per poter rompere il ghiaccio e cominciare a cogliere il bello. Perché anche un paese come la Serbia può dare molto, se solo glielo si permette: vi sono persone pronte ad aiutare, che vivono alla giornata e che sono pronte a festeggiare in qualsiasi occasione. Ci sono i sorrisi degli utenti, delle persone che vengono aiutate, e che ti ringraziano con un abbraccio, ci sono giovani che sognano un futuro all’estero ma che sono preoccupati per la mancanza di denaro. E’ quasi incredibile come due mesi in un paese straniero possano cambiare così tanto una persona, e stimolare una curiosità che sono sicura troverà piena soddisfazione in questo anno di servizio civile.
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