Prego che salga il sole, perché con questo cielo e la garúa mi sono quasi dimenticata quanto siano pittoreschi, nonostante tutto, i cerros pieni di casette (perlopiù baracche) colorate delle periferie peruviane. Lima Norte, la mia nuova casa.
Involontariamente mi viene da scuotere la testa a ritmo di musica, le solite 5/6 canzoni che risuonano ovunque ogni santo giorno, raggaeton, cumbia e huayno, con qualche parolaccia in mezzo a volte. Arrivo alla mia fermata, faccio lo slalom tra i venditori ambulanti, cercando di capire se qualche suonata di clacson è riferita a me che attraverso di corsa la strada. Chiedo a un autista di mototaxi se mi porta a Santa Rosa, il quartiere del distretto di Puente Piedra in cui vivo. Preparo 1 sol, scendo, e sono arrivata.
Vivo con una famiglia peruviana a cui mi sono già affezionata terribilmente, e so già che per cena avrò pollo, riso e patate. Quando chiudo la porta della mia camera, mi siedo un secondo sul letto e penso che in Italia è già notte, tutti dormono, mentre io ho vissuto giornate e mesi fuori dal normale, in questa pazza periferia che mi ospiterà per un anno intero. Non che la nostalgia mi pesi, sia chiaro, però quell’oceano di distanza a volte si fa sentire. È nei rari momenti di sconforto che la consapevolezza del mio “ruolo” qui mi risolleva. Perché?
Forse perché ho rinunciato ad altri progetti per scegliere di dedicare un anno della mia vita al lavoro sociale, e ci sono riuscita. O probabilmente perché sono una volontaria riempita di affetto dai bambini del centro culturale, il Proyecto Quijote para la Vida.
Forse perché, questa nuova famiglia mi ha accolta, questo paese mi ha accolta, questo quartiere dimenticato da Dio mi ha accolta in un momento in cui io ero pronta a farmi accogliere.
Ero pronta, l’avevo scelto e ora sono sul campo, è questo che conta alla fine più di ogni altra cosa. Lasciando da parte i buonismi, la retorica, il voler fare la differenza o il cercare un progetto professionalizzante, la sensazione da supereroi che non deve sopraffarci: lasciando da parte tutte queste sciocchezze, io ho scelto di essere qui quando potevo benissimo essere altrove e sono felice, e i miei bimbi, quei piccoli pazzi peruviani scelgono ogni santo giorno di svegliarsi presto, camminare fino al centro e seguire i nostri laboratori (di lettura, arte, poesia, yoga, gioco, inglese, italiano e chi più ne ha più ne metta), hanno scelto di volere bene a questi due italiani sgangherati e vivaci che si sono ritrovati davanti (io e Luca, il mio compagno corpo civile di pace).
Tutti abbiamo scelto di buttarci e accoglierci a vicenda, e nonostante il disagio, la povertà, il caos, la desolazione ogni singolo giorno costruiamo, più o meno goffamente, una storia di bellezza e di speranza. Io sarò anche troppo emotiva e sentimentale, ma la vita a volte sa essere capace di riservare sorprese, bisogna ammetterlo. Basta saperle vedere, basta adattarsi come fanno le piante, e io il mio angolo di bellezza l’ho trovato dove davvero non mi aspettavo ci fosse.
Il Perù ti mette alla prova come essere umano, sa darti talmente tanto e tutto insieme (il bello e il brutto) da farti davvero pensare “Me lo merito?” o “Ce la farò?”. Questo sarà il mio paese adottivo per 11 mesi, ma lo chiamo già casa. La mia casa è in quegli abbracci mattutini, in quegli occhioni scuri, in quelle voci che mi salutano chiamandomi “Miss!” o “Profesora!”.
Siete gioia!
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