É ormai un dato di fatto che la smobilitazione di una parte considerevole della guerriglia sia coincisa con un aumento delle attività di gruppi del crimine organizzato. I narcotrafficanti sgomitano per impossessarsi delle aree non più presidiate dalle FARC, e quelli che hanno collaborato con la guerriglia, anche se costretti con la forza, sono oggi esposti al continuo rischio di ripercussioni.
Con circa 500 persone che attraversano il confine ogni giorno il flusso migratorio dalla Colombia verso l’Ecuador continua ad essere il più rilevante del continente. I richiedenti asilo denunciano una situazione di caos generalizzato (soprattutto nelle regioni della Valle del Cauca, Nariño e Putumayo) in cui non è nemmeno possibile capire di quale organizzazione faccia parte la persona armata che bussa alla porta per reclutare il figlio, o per chiedere il pizzo (la vacuna).
Se però per motivi storici e geografici la migrazione dalla Colombia all’Ecuador è da decenni un fenomeno di prim’ordine, un nuovo focolare di migrazione si è acceso non distante dal paese andino.
Con l’inasprirsi della crisi (economica, politica, sociale) sono infatti sempre più i venezuelani che scelgono di abbandonare le proprie case per cercare rifugio in Ecuador. Molti migrano alla ricerca di opportunità lavorative, ma altrettanti fuggono dopo aver aver vissuto estorsioni, minacce o violenza. Gli aguzzini hanno il volto di bande criminali, dell’esercito o di gruppi radicali di ogni schieramento.
Ad oggi sono più di 23mila i venezuelani che hanno attraversato il Ponte Internazionale Simón Bolívar, che collega San Antonio del Tachira con Cucuta, in Colombia. Per la stragrande maggioranza di loro, la destinazione finale è l’Ecuador.
Sulla carta, l’Ecuador è uno dei paesi più ben disposti nei confronti dei migranti. Nella Costituzione del 2008 si menziona come “paese interculturale”, si cita il diritto alla cittadinanza universale e all’articolo 40 si dichiara che “nessun essere umano potrà essere considerato illegale sulla base della propria condizione migratoria”.
Come conseguenza di un diffuso benessere e relativa stabilità, oltre che della citata apertura legislativa (più volte reiterata dall’ex Presidente Rafael Correa), più di 60.500 persone vivono nel paese con status di rifugiato. Si tratta di circa la metà di quelli accolti in Italia, a fronte di un quarto della popolazione. L’Ecuador è diventato sinonimo di paese accogliente e schierato a difesa dei diritti umani.
Le cose però, come spesso accade, sono più complicate di così.
L’abbassamento del prezzo del petrolio, che aveva fatto da motore ai progetti sociali dell’amministrazione Correa, ha contribuito a peggiorare una situazione che vede l’Ecuador compresso fra un debito enorme (pari al 59% del PIL) e un’economia stagnante. Il tasso di sotto-occupazione (subempleo) a marzo 2017 era al 21,4%, quando solo un anno prima era fermo al 17,1%. (INEC: 2017).
L’urbe ecuadoriana del 2017, quella di Quito e Guayaquil per intenderci, è oggi una società tendenzialmente depressa, con un senso di disaffezione verso la collettività e le istituzioni. La lotta intestina al partito di governo, che vede l’ex mandatario Correa e l’attuale Presidente Lenín Moreno in continua polemica l’uno con l’altro, ha alimentato nuove, accese divisioni.
Se da un lato le classi medio-alte di popolazione non temono di perdere i privilegi acquisiti (anche grazie alla dollarizzazione dell’economia del 2000, che ha favorito i ceti più abbienti), i settori più umili di popolazione e la piccola borghesia iniziano a vedere in colombiani e venezuelani dei competitors sleali. Avversari nella lotta per conquistarsi una fetta di torta ad una festa con troppi invitati.
In maniera non troppo dissimile da quanto accade in Italia, sentimenti razzisti e xenofobi sono emersi e si diffondono su reti sociali e mezzi di comunicazione. Oggi assistere a episodi di razzismo in Ecuador (soprattutto in città) è cosa tutt’altro che rara e le associazioni umanitarie denunciano crescenti casi di persecuzioni e violenze ai danni della popolazione venezuelana.
Improvvisamente, le case in affitto non sono più disponibili se la parlata al telefono è quella aspirata che hanno a Caracas e i posti di lavoro sono già stati presi se a presentarsi al colloquio è un signore troppo negrito. Chi invece un lavoro già ce l’ha denuncia frequenti episodi di mobbing, che avvengono spesso col tacito accordo dei superiori.
Soltanto una settimana fa un signore venezuelano che stavo assistendo negli uffici di HIAS, dove mi trovo grazie al programma dei Corpi Civili di Pace, mi ha detto che sua figlia dodicenne all’uscita da scuola ha sentito un ragazzino dire “per fortuna nella mia classe non ci sono venezuelani”. Questa situazione, già di per sé tesa, è stata esasperata negli ultimi mesi da alcuni video circolati sulle reti sociali.
In un primo video una ragazza venezuelana intenta a vendere dei gelati per strada viene intervistata dal canale di youtube El Quiteño. “Cosa ne pensi degli ecuadoriani?”, chiede l’intervistatore (non si sa bene per quale motivo). Dopo qualche esitazione, la ragazza si scioglie in un sorriso e, forse nel maldestro tentativo di una battuta, dice al microfono la frase incriminata. Gli ecuadoriani sono “indigeni e brutti” (indios y feos).
Apriti cielo. Nel giro di poche ore il video diventa virale, le reti sociali si surriscaldano. Nelle scuole e nei luoghi di lavoro nessuno parla d’altro.
Tempo pochi giorni e fa la sua comparsa un secondo video. Qui una giornalista di Teleamazonas e youtuber, Rebeca Lebetkevicius, si cimenta in un’imitazione piuttosto goffa dei modi di dire ecuadoriani o delle diversità di lessico fra i due paesi. Nulla di particolarmente offensivo, ma sulla scia del video precedente anche questo diventa virale e viene utilizzato per provare la teoria secondo cui “i venezuelani odiano gli ecuadoriani”. E legittimare di conseguenza l’odio degli ecuadoriani verso i venezuelani. Migliaia di commentatori annoiati su facebook invocano un boicottaggio contro la popolazione venezuelana. Gli operai impiegati nella costruzione della linea metropolitana di Quito scioperano in segno di protesta contro l’assunzione di personale venezuelano. Lourdes Tiba, leader del movimento indigeno Pachakutik, definisce “terribili” le parole contenute nei video e il collettivo venezuelano Chamos en Ecuador, riunitosi con l’ambasciatrice venezuelana, si affretta a pubblicare lettere di scuse un po’ ovunque.
Nel frattempo la tensione razziale continua a crescere. Seppur ancora lontana dai livelli di intolleranza e persecuzione che si raggiungono in Europa, ogni giorno negli uffici delle organizzazioni umanitarie si ascoltano storie di pregiudizi, aggressioni verbali, insulti. Nel contempo, ogni giorno i funzionari di poche ma motivate organizzazioni umanitarie lavorano per vedere riconosciuti i diritti dei richiedenti asilo, che in Ecuador sono equiparati a quelli di un cittadino ecuadoriano (salvo per il diritto al voto).
Per un europeo può essere spiazzante constatare come la xenofobia e il razzismo possano diffondersi anche laddove le differenze di lingua, di cultura e di carnagione non sembrano così profonde.
A riprova che il razzismo non è questione di razza, di religione o di lingua, ma solo di confini. Mentali.
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