“Abcasia… Abcasia… sì, in effetti come nome mi dice qualcosa…ma dov’è che sei andata esattamente?” Questa è la reazione tipica delle persone quando si parla di questa piccola repubblica filo-russa al di là del fiume Ingur all’interno della Georgia… già è difficile per molti localizzare dove si trovi la Georgia, (quella europea eh! Non quella negli USA), figurarsi l’Abcasia! Un po’ come quando agli stranieri cerchiamo di spiegare che San Marino non è Italia, con l’enorme differenza che non molto tempo fa il territorio in questione è stato teatro di un’atroce guerra etnica tra georgiani e abcasi. Una di quelle guerre contemporanee di cui si parla poco, di cui a malapena ci si ricorda… Una guerra però che ha lasciato delle ferite profonde e che ha portato all’espulsione e all’uccisione di migliaia di persone.
Tra i 10.000 e i 30.000 georgiani furono uccisi dai separatisti abcasi, dai mercenari stranieri e dalle forze della Federazione russa, non si conosce il numero delle vittime abcase. La Corte penale internazionale sta attualmente indagando sulle violenze perpetrate.
Ovviamente questo non vuole essere un articolo di parte, ma semplicemente il racconto di un’esperienza di pochi giorni in una terra contestata.
“Vi sarete sicuramente accorti dell’enorme numero di case distrutte qui in Abcasia. Il 4 agosto 1992 le truppe georgiane invasero il nostro piccolo stato. L’Abcasia non aveva un suo esercito e il nostro popolo si è dovuto difendere a mani nude. Per fortuna i nostri amici caucasici, kazaki, armeni, ceceni e russi ci hanno supportato nella liberazione dall’aggressore georgiano avvenuta il 30 settembre 1993. Questo giorno è la nostra festa più importante: tutta la settimana precedente a questa data, noi abcasi celebriamo con concerti e eventi e i trasporti sono gratis, venite a trovarci!” Così tra uno sballottamento e l’altro della marshrutka diretta al lago Riza, meraviglioso specchio d’acqua a confine con la Russia, la guida ha dato il benvenuto a noi turisti introducendoci a questo triste capitolo del passato.
La storia di quest’area è costellata di invasioni e occupazioni, a cominciare dai bizantini per passare dagli ottomani, dai georgiani per poi essere inglobata all’impero russo. Successivamente, dopo la dichiarazione d’indipendenza del 1919 sulla scia della rivoluzione d’ottobre, l’Abcasia fu occupata dall’Armata Rossa e in seguito, per volere del georgiano Iosif Vissarionovič Džugašvili, alias Stalin, diventò repubblica indipendente in Georgia sotto il controllo di Tbilisi . Dopo la caduta dell’URSS, l’Abcasia il 23 luglio 1992 si dichiarò stato indipendente dalla Georgia dando luogo a un conflitto che non si è mai del tutto placato. Qualsiasi speranza di riappacificazione tra le due parti si è spenta dopo la guerra del 2008 con l’Ossezia del sud, quando l’esercito russo passò attraverso l’Abcasia per attaccare le basi militari georgiane posizionate della parte occidentale del paese.
Le entità statali o parastatali che riconoscono la Repubblica abcasa sono: Russia, Venezuela, Nicaragua, l’isola del Pacifico Nauru, l’Ossezia del Sud, il Nagorno Kharabakh e la Transistria. I cittadini della maggior parte dei luoghi citati sono esonerati dal richiedere il visto di accesso per entrare nel territorio. Tutti gli altri devono compilare un modulo scaricabile dal sito del Ministero degli Affari Esterni abcaso e inviare una mail con tanto di copia del passaporto all’ufficio visti. La risposta arriva nel giro di 7 giorni lavorativi, dopo essere entrati in Abcasia si hanno 72 ore di tempo per recarsi all’ufficio preposto a Sokhumi e lì ritirare il visto pagando una somma corrispondente più o meno a 5 euro.
Sono partita con Alessandra, responsabile delle case famiglie dell’APG23 in Georgia e Anna, responsabile di una casa di accoglienza per ragazze di strada a Rimini, in visita per qualche giorno nella nostra Comunità di Batumi. Siamo arrivate a Zugdidi e da lì abbiamo preso un pulmino sconquassato che ci ha portato al confine sul fiume Ingur. Siamo rimaste in attesa del permesso del Ministero degli Affari Esteri georgiano circa mezzora sotto il sole cuocente di un luglio afoso. Mentre chiacchieravamo di Celentano e Cotugno con i poliziotti di frontiera assistevamo all’andirivieni di persone che dall’Abcasia attraversava un lungo ponte per fare acquisti vantaggiosi in Georgia: chi a piedi con pesanti borse o chi su un calesse trainato da cavalli. Al di là del ponte ci aspettava il controllo della polizia abcasa con un’attesa di un’ora e mezza per la risposta del Ministero degli Affari Esteri abcaso.
La bandiera abcasa sventolava sopra le nostre teste e per ammazzare il tempo e non pensare troppo al caldo abbiamo interrogato i soldati sul significato di questa particolarissima bandiera: le 4 strisce verdi rappresentano la religione islamica, le 4 bianche la religione cristiana. La mano aperta al centro del quadrato rosso rappresenta l’accoglienza verso gli ospiti che per gli abcasi sono sacri; le 7 stelle bianche invece rappresentano le 7 regioni storiche dell’Abcasia dai nomi difficilmente pronunciabili: Abzhywa, Bzyp, Dal-Tsabal, Gumaa, Pskhuy-Aibga, Sadzen e Samurzaqan.
Dopo l’attesa è arrivato il momento delle domande di rito, inaspettatamente non di fronte a uno sportello ma in mezzo a un cortile di transito: “Dove andate?” “Siete giornaliste?” Stesse domande che qualche ora dopo ci avrebbero fatto gli abitanti di Sokhumi vedendoci passeggiare in centro. Accomiatandoci tra un “Toto Cotugno” “italiano vero” e “ciao ciao bambina”, abbiamo lasciato i soldati alle spalle e ci siamo ritrovate su una marshrutka piena di georgiani, diretti a Gal, città abitata prevalentemente da georgiani rientrati in Abcasia dopo la guerra. Al momento è piuttosto complicato per i georgiani entrare in Abcasia. Qualcuno diplomaticamente dichiarava: “Prima era problematico per noi ma adesso non abbiamo problemi di discriminazione, i nostri figli comunque hanno studiato in Georgia perché lì il sistema di istruzione è migliore e vivono e lavorano lì”. Qualcuno invece con un filo di amarezza non troppo celata si sbilanciava e si sfogava: “l’Abkhazia così come l’Ossezia sono nostri”.
Dopo un paio di marshrutke, finalmente siamo arrivate alla capitale Sokhumi. Siamo state ospitate presso la parrocchia cattolica locale da un gentilissimo Padre Jezhi. Il prete polacco è stato inviato in missione in Abkhazia nel 2006 in quanto da 3 anni la parrocchia era senza prete; in quel periodo, infatti, l’Abcasia aveva chiuso le frontiere per gli stranieri, lì è rimasto fino al 2011, per poi ritornare a Sokhumi 5 anni dopo.
Ci sono circa 40 cattolici in Abcasia, la Chiesa cattolica non è riconosciuta in quanto secondo le leggi locali la massima autorità di una rappresentanza religiosa deve risiedere in Abkhazia. Secondo questa logica, per avere il riconoscimento bisognerebbe che ci fosse un papa abcaso, e l’unico papabile sarebbe di fatto Padre Jezhi, ma il parroco non sembrava affatto interessato a questo incarico. La Chiesa ortodossa abcasa è autocefala e risponde all’autoproclamato Patriarcato di Sokhumi. Dal 1993 non vengono ordinati sacerdoti ortodossi in Abcasia, questi arrivano in maggioranza dalla Russia.
La parrocchia di Padre Jezhi offre assistenza a 10 famiglie bisognose distribuendo cibo, vestiti e giochi. Il parroco fa tutto da solo. Ogni tanto riceve dei volontari dalla Polonia che organizzano dei campi estivi per i bambini del luogo. A fianco alla chiesa cattolica, che risale al 1886, nello stesso cortile si trova la chiesa luterana. “I luterani sono anche meno dei cattolici, ce ne saranno 15 in tutto. I rapporti con loro sono buonissimi, stasera faremo una grigliata insieme”. Riguardo al rapporto con il Patriarcato di Sokhumi, invece Padre Jezhi racconta che “non c’è nessun rapporto, i cattolici non sono discriminati, però rappresentano l’Occidente e quindi sono visti con sospetto. Ogni tanto quando vado in Georgia, ho delle difficoltà a rientrare in Abcasia”. Quando Padre Jezhi non può essere a Sokhumi, registra un’omelia audio che viene ascoltata dai fedeli, i quali sono per la maggioranza anziani. “E’ difficile trovare anche qualcuno che possa dare una mano con le pulizie o i lavori di restauro della chiesa, perché di giovani non ce ne sono”.
In Abcasia si respira un’aria molto russa, l’orario per esempio segue quello di Mosca e ed è quindi un’ora indietro rispetto alla Georgia, la moneta è il rublo russo. Raramente per le strade si sente parlare abcaso, una lingua antichissima e molto difficile con 64 caratteri. La lingua più parlata è sicuramente il russo, a scuola l’abcaso si studia, ma solo gli anziani lo parlano. Ciononostante, Padre Jezhi ci racconta che per diventare presidente di questo stato è necessario sapere l’abcaso, quindi le altre etnie presenti sul territorio russi, megreli e armeni sono di fatto escluse.
Mi ha colpito l’incontro con una donna al mercato a Sokhumi, ero l’unica cliente e mi ha invitata a mangiare un po’ di anguria con lei. Quando ha saputo che vivo a Batumi a voce bassissima mi ha detto “Io sono georgiana, durante la guerra sono stata rifugiata a Batumi, stavo all’hotel che adesso si chiama Sheraton” (uno degli hotel più prestigiosi sul lungomare di Batumi). Tra una battuta in georgiano – sempre a voce bassa – e una fetta di anguria, mi invita ad andare a trovarla alla sua casa in Russia.
Sokhumi, Sokhumi… un tempo la perla del Mar Nero, di quella tanta decantata bellezza non ne è rimasta molta: una città costellata da case abbandonate, soprattutto lungo le strade più periferiche. Edifici mastodontici di cui ne rimane solo lo scheletro, come per esempio il fatiscente vecchio parlamento di Sukhumi bombardato durante la guerra. Una struttura diventata rifugio per tossicodipendenti che disseminano siringhe su un pavimento ormai occupato da piante spontanee che crescono rigogliose in mezzo a cartacce, puzza di pipì. Il contrasto è davvero inquietante. “Perché fate foto a questa cosa? Cosa avete nella testa?” Ci giriamo e vediamo un energumeno sulla cinquantina che portava a passeggio il cane, dopo tutta una serie di domande con cui indagava sullo scopo della nostra visita, si lascia andare a uno sfogo “Io ho combattuto durante quella guerra, anche il mio cane è un combattente” accarezza la testa al suo cane e mi indica una delle finestre di quello che una volta doveva essere il secondo piano: “Gli hanno sparato da quella finestra… Che motivo c’è di sparare a un cane? E io l’ho preso tra le braccia e sono corso via per salvarlo.” Era inutile continuare una conversazione con lui, la nostra presenza aveva suscitato in lui tutta una serie di emozioni che esprimeva tramite dei flashback che solo per lui potevano avere un senso. Mentre ce ne stavamo andando ha bofonchiato qualcosa che suonava come “ho sparato anche io a quei bastardi”.
L’Abcasia e Sokhumi in primis è caratterizzata da questo culto della guerra. Tutto sembra fermo a quei terribili anni di devastazione e morte. “Sulla destra potete vedere monumenti in onore dei morti il 16 marzo 1993 che volevano liberare la città di Sokhumi dall’invasore georgiano. Questi memoriali sono stati costruiti dai genitori dei ragazzi morti e ad ogni festa noi veniamo qui in ricordo di quei ragazzi morti durante la guerra georgiano-abkhaza.” Parole della nostra cara guida che dopo aver cercato di decantare la bellezza della stazione ferroviaria di Sokhumi ormai ridotta a una struttura fatiscente e pericolante e del parco botanico situato in una delle vie principali ma poco curate, esprimeva l’attaccamento a un passato doloroso che questa popolazione non riesce a lasciarsi alle spalle.
Queste impressioni non vogliono assolutamente screditare la bellezza e il potenziale culturale e artistico di questo territorio. Ci sono degli scenari spettacolari che attraggono tutti i giorni centinaia e centinaia di turisti: basti pensare alle grotte stalattiti e stalagmiti di Novy Afon e al suo bellissimo monastero o ai canyon mozzafiato che rallegrano gli occhi e accompagnano il viaggiatore lungo la strada per il meraviglioso lago Riza.
“Ci auguriamo che i viaggio sia stato di vostro gradimento! Tornate a trovarci! Il nostro piccolo paese baciato dal sole vi accoglierà sempre a braccia aperte!”.
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