Appena dieci mesi fa studiavo per superare gli esami di maturità, vivevo con la mia famiglia nel mio tranquillo paesino di 7 mila abitanti, avevo una camera per me, uscivo con gli amici, coltivavo la mia passione per la chitarra; insomma, cose normali che fa un ragazzo di 19 anni come me.
Da ottobre la mia vita è cambiata: ora vivo nell’affollata capitale d’Albania, Tirana, in una struttura della Comunità papa Giovanni XXIII, denominata Capanna di Tirana. Qui abito insieme ai più indigenti della città, persone senza casa, senza soldi, spesso con problemi di alcol e droga, e con problemi di salute: persone che nessuno vuole avere intorno.
Non è stato facile adattarmi ad un Paese così vicino geograficamente ma così lontano dalla mia cultura, tanto meno adattarmi a uno stile di vita completamente diverso da quello che prima avevo; lasciare tutto, tutte le mie sicurezze, le mie abitudini, e doverne creare di nuove.
Ciò che ho trovato è un’avventura a 360 gradi, che ti impiega 24 ore su 24. Questa è la condizione per fare un’esperienza davvero intensa e significativa: convivere con i bisognosi. Ho imparato a mettermi nell’ottica di non venire per salvare l’altro, ma per incontrarlo e crescere insieme a lui.
Questo “altro” si chiama L., è un ragazzo disabilità psichica, abbandonato in un orfanotrofio da piccolo. Insieme facciamo passeggiate, suoniamo la chitarra, cuciniamo. Oppure si chiama M., è un ragazzo di 18 anni che è stato abbandonato in strada appena tredicenne dopo essere stato costretto a mendicare per pagare alcol e droga ai genitori. Con lui passo il tempo facendo le pulizie di casa, dei giri in bici, delle chiacchiere fumando una sigaretta, e molto spesso facendo grandi litigate. O ancora è D., un uomo di 50 anni, che dopo un passato di criminalità, malato di diabete e senza una gamba è finito in strada a mendicare. Ora vive in Capanna, e con lui ogni giorno ho un appuntamento al quale non posso mancare per giocare a scacchi. Infine M. un anziano che se non fosse stato accolto se ne starebbe per morire da solo in strada, o sarebbe già morto. L’altro sono tante persone che sono passate di qua e si sono fermate per periodi più o meno lunghi, in base al loro bisogno.
Qui si respira l’aria di una famiglia e questo è uno degli obbiettivi del centro: far sentire parte di una famiglia coloro che l’hanno persa o non ce l’hanno mai avuta.
La maggior parte delle persone che passano dalla capanna sono uomini il cui passato è sporcato da criminalità, famiglie sfasciate, droga, alcol, lutti, anni in carcere, persino omicidi.
Tuttavia il male più profondo che vivono questi indigenti, non è tanto il fatto che non hanno una casa o i soldi, ma che sono abbandonati a loro stessi. Ho capito che in fondo la povertà è fatta di solitudine. E mi rende felice semplicemente il fatto che con le piccole cose, come il salutare dando la mano, un buon giorno la mattina, una partita a carte, una risata, una sigaretta insieme, posso contribuire concretamente a rendere la loro vita più umana e meno sola.
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