Spiegare cosa ci fanno 3 italiani a La Sierra di Medellin non è impresa facile. O meglio…renderla facile descrivendola in una frase riassuntiva del tipo “siamo volontari ENGIM”, “lavoriamo con i bambini e i giovani di un quartiere molto povero” rischierebbe di banalizzarla, mentre la nostra presenza qui è un’esperienza talmente totale che ci vuole un po’ più di precisione.
Noi qui non siamo “semplicemente” volontari, noi siamo parte integrante del fitto tessuto sociale di questo quartiere: le nostre storie e le nostre esistenze si intrecciano ormai con quelle degli altri abitanti perché La Sierra non è un quartiere, è una comunità. Siamo i loro “profe”, siamo i loro vicini, siamo i loro compagni di gioco, siamo quelli che invitano a pranzo la domenica, siamo quelli che incontrano per strada e con cui si fermano a chiacchierare, siamo “hola italianos”, “eh, parce!”, e siamo anche “me invitas?”, “me das 100 (pesos)?”.
Inoltre noi qui siamo quelli che trovi un po’ dappertutto perché collaboriamo con la maggior parte delle realtà che ci sono sul territorio e che si occupano di infanzia e adolescenza.
Facciamo così allora: proverò a riassumere una giornata, anche se già parto col piede sbagliato in quanto non esiste per noi una giornata tipo: abbiamo attività diverse quasi ogni giorno, di sicuro non ci massacriamo di monotonia.
Proviamo con un mercoledì, un giorno che mi piace molto. La sveglia suona alle 7 di mattina, decisamente non troppo presto soprattutto considerato che qui ci si sveglia tra le 5 e le 6 e quando noi ci tiriamo su dal letto i nostri pargoli sono appena entrati a scuola, hanno già dimenticato il sonno e sono già scatenati correndo, rincorrendosi, gridando e pronti per una nuova giornata!
Ma torniamo nella casa degli italiani: oggi dobbiamo andare alle elementari con il nostro progetto “Los derechos de los niños”, quindi caffè – colombiano, ma rigorosamente con moca italiana – e si scende verso la scuola: si perché noi viviamo nella parte più alta del “barrio” e da quando mettiamo il piede fuori casa inizia la trafila dei saluti, siamo in una comunità come dicevamo, ci si conosce, l’anonimato non è di queste parti e ci si saluta cordialmente anche se non ci si è mai presentati o non si sono mai scambiate due parole. “Buenos dìas, como amanecieron?” “Bien y usted?” “ que tengas un buen dìa” “Hasta luego”.
Passiamo dalla biblioteca, di proprietà della parrocchia, che abbiamo ristrutturato interamente e che adesso è una scatola colorata e allegra con i libri belli ordinati e spolverati su degli scaffali tutti nuovi… ebbene sì, ho imparato anche a stuccare e verniciare e ogni volta che entro son troppo fiera del nostro lavoro! Questa è una tappa obbligatoria perché qui custodiamo tutti i materiali che utilizziamo per le attività ed è giusto a metà strada prima di arrivare al cancello della Instituciòn Educativa Villa Turbay. Un saluto al custode, uno alla direttrice, che non manca mai di accoglierci con sorrisi, e si entra. Oggi siamo nelle classi terze e, nonostante la presenza della professoressa, aprendo la porta tutti si alzano per saltarci addosso e io…beh, non ci posso fare nulla, cerco di dire “niños sentados, sientense!” ma quando vedo in quel gruppetto alto un metro la testolina di Adrian o di Kenny o di Daniela il mio tentativo di disciplina svanisce e me li stringo tre secondi prima di metterci tutti al lavoro.
Con “Los derechos de los ninos” svolgiamo attività educative, rigorosamente studiate e organizzate, per far capire ai bimbi quali sono i loro diritti, troppo spesso violati o non presi sufficientemente sul serio da queste parti, sanciti dalla convenzione dell’ONU; non è un’impresa sempre semplice gestire gruppi di 40 bambini per classe, ma col passare dei mesi si sono instaurati dei rapporti con questi piccoli alunni che facilitano il tutto. Alla fine delle attività, come sempre si fa un riassunto, cerchiamo di far sì che costruiscano una definizione del diritto con parole loro e dopo dividiamo la classe in due gruppi, uno si occuperà di fare disegni che rappresentino ciò di cui si è parlato, mentre l’altro lavorerà per costruire una filastrocca che lo spieghi in maniera divertente. Tutto quello che i bimbi producono lo conserviamo come oggetto sacro, dopo di che lo passeremo a una selezione fino a trovare il disegno e la filastrocca che potrebbero entrare a far parte del libro che stiamo cercando di far pubblicare: un manuale sui diritti, scritto per i bambini, con il linguaggio dei bambini da parte di bambini. “Incrociamo le dita!”
Le ore passano tra una classe e l’altra e noi ripetiamo gli stessi movimenti, i saluti, le attività, i fogli e le matite. Chris mi vede entrare e mi chiede se oggi andiamo a studiare “no mi amor, mañana!”. Domani infatti si torna a scuola, ma per il progetto di sostegno scolastico, ed i bimbi son sempre contenti quando quel giorno arriva, anche solo per uscire dalla classe e godersi un’oretta di attenzioni tutte per sé. A Chris però piace proprio studiare: ha 8 anni e non sa leggere né scrivere, perché in vita sua prima di questo anno ha lavorato nella fattoria dove viveva la sua famiglia prima di spostarsi a Medellin, e quando siamo nella saletta con i libri davanti riempie la stanza con la sua allegria e intelligenza.
Ce ne andiamo massacrati, non c’è modo di abituarsi alla “bulla”, alla confusione allegra ma pur sempre caotica che riescono a mettere su questi piccoli scatenati.
Ci riavviamo in salita, si ritorna a fare una tappa a casa o nella biblioteca: ci sono attività da organizzare, materiali da cercare, giochi da decidere, e non c’è cosa più seria che decidere a che gioco giocare! Oggi però ognuno si chiude un momento nel suo mondo perché dobbiamo occuparci delle superiori dove andremo domani e ognuno di noi si occupa di un progetto specifico con un grado d’istruzione diverso. Il progetto “Amarte” lo abbiamo pensato in base alle diverse esigenze che il collegio mostra, molte purtroppo. È un collegio bellissimo e nuovissimo, con meno di un anno di attività, ma deve ancora trovare una metodologia per risolvere i problemi di convivenza tra studenti, di consumo di sostanze stupefacenti, di gravidanze precoci, e in generale di disorientamento dei ragazzi.
Nel frattempo mando un messaggio al gruppo di whatsup della “Mesa de trabajo juvenil”: “hola chicos, nos vemos a las 5:00”…la prudenza non è mai troppa e anche se ho scritto anche ieri è meglio dargli ancora un cenno per essere sicura che non manchino all’appuntamento e così anche noi alle 4:45 ci fiondiamo di nuovo giù per le scale, di nuovo in direzione biblioteca, di nuovo i saluti, di nuovo i bimbi che nel frattempo sono tutti usciti da scuola e sono per strada a giocare, o nella cancha a tirare il pallone in porta. Alla porta della biblioteca ci aspettano già alcune ragazze, sempre in anticipo, entriamo e aspettiamo gli altri.
La Mesa de trabajo (“tavolo di lavoro”) è un progetto sorto per creare una rete di collaborazione tra i gruppi giovanili del quartiere, e per dare voce ai ragazzi stessi, in prima linea come motore di cambio. Così abbiamo chiamato attorno a questi tavoli colorati della biblioteca tutti i leader sociali con cui eravamo in contatto con i loro ragazzi e le riunioni sono partite, ogni mercoledì alle 5 di pomeriggio, con la merenda assicurata! Non tutti hanno risposto alla chiamata, c’è chi ancora non è pronto ad aprirsi all’idea di collaborare, c’è paura che gli altri possano “prendersi i miei contatti, la mia posizione nel quartiere”, “che non mi sia dato il riconoscimento di quello per cui ho lavorato”. Sappiamo che i tempi devono ancora maturare per tante cose in un territorio come questo che sta affrontando dei cambi così grandi. Ogni settimana insieme ai ragazzi aspettiamo anche Paola, una psicologa che si occupa di politiche sociali per i giovani nei luoghi del post conflitto; dopo averla conosciuta e averle spiegato l’idea si è affezionata tantissimo a questo processo e ci accompagna con delle attività che aiutano i ragazzi ad orientarsi nei loro pensieri, e a gestire la loro idea di progetto “La Sierra es otro cuento” che vuole ottenere l’apertura del quartiere al turismo e vede gli stessi giovani vestire i panni di guide per abbattere le barriere di stigmatizzazione che ricoprono il barrio a causa della sua lunga e dura storia di violenza.
Sono le 7 di sera ed è ora di finire la riunione. Suonano di nuovo le campane della chiesa che si trova proprio al lato della biblioteca, chiamano i fedeli alla messa. È già buio da un’ora, il sole colombiano non fa sgarri ai suoi orari di apparizione e sparizione: 6 di mattina e 6 di sera, nella città della eterna primavera, dove chiamano “inverno” il momento in cui si mette a piovere ed “estate” quello in cui si ripresenta il caldo (e tu pensi alle tue sciarpe e cappelli di lana che ti aspettano dall’altra parte dell’oceano e senza i quali non usciresti mai di casa a gennaio). Ci salutiamo tutti con abbracci e stanchi ma soddisfatti rincasiamo; domani no invece, domani alle 19.00 c’è l’appuntamento con Kodigo8, un gruppo giovanile di cui facciamo parte dal nostro arrivo a La Sierra e che si riunisce due volte a settimana, tranne nel caso in cui giochi il Nacional, in quel caso non c’è impegno che possa anteporsi a quello di seguire la partita della squadra più amata da tutto il quartiere. Ma di questo ci occuperemo domani, ricomincia la passeggiata/arrampicata per le scale del barrio, ricominciano i saluti “hustedes se manejan pa’ arriba y pa’ abajo! Cansados?” ma tu sei morto e riesci giusto a mugugnare un “eeeeeh…mmmm…”, si danno le ultime carezze ai bimbi “hasta mañana”, si raggiunge la cancha dove la partita infinita continua a vedere nuovi giocatori che si alternano sul terreno polveroso, raggiungi la porta di casa, ma i soliti bimbi iniziano con le richieste “me das 100?”, “me regalas aguita?”, “italiano!”. Ti chiudi la porta alle spalle, ma le voci della gente riunita per la stradina continua ad entrare e mentre fai cadere lo zaino a terra e lanci le scarpe tiri un sospiro: oggi è andata bene! Domani si ricomincia!
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