Ogni anno, il 28 dicembre ad Èlista si riuniscono migliaia di persone per ricordare uno degli eventi più tragici di un particolare popolo stabilitosi nella federazione russa: i Calmucchi.
Questa etnia vive nella Russia meridionale, tra Mar Caspio e mar Nero, in una Repubblica che gode di particolare autonomia, probabilmente proprio a causa delle sue caratteristiche culturali: i Calmucchi sono i discendenti di un popolo nomade e buddisti di religione.
Negli 1943 Stalin ordinò la deportazione in massa del popolo Calmucco in Siberia, così come la stabilì per i Tedeschi che risiedevano lungo la riva del Volga e per altri popoli minoritari, quali i ceceni e gli ingusci. I deportanti furono ammassati in treni merci e viaggiarono per settimane in condizioni disumane, senza cibo, acqua, la possibilità di un minimo di igiene. Essi, inoltre, furono costretti a vivere in un luogo che era a loro ostile, in quanto agli abitanti locali erano stati raccontati tutta una serie di pregiudizi sui calmucchi. I sopravvissuti poterono incominciare a tornare nelle loro case soltanto tredici anni dopo l’inizio della deportazione, a partire dal 1956. Migliaia furono le vittime di questa politica di sterminio, per lo più bambini, donne e anziani, dato che gli uomini erano contemporaneamente impiegati come soldati sul fronte contro la Germania nazista.
In questo articolo non si pretende di dare una dimostrazione scientifica con riferimenti a fonti e studi storici di quanto si è appena accennato. In primo luogo perché non esistono ancora studi scientifici di ampio raggio sulla deportazione del popolo Calmucco, come gli stessi sopravvissuti e i loro discendenti avvisano. Non potendo vagliare fino in fondo quanto mi è stato raccontato, mi sono limitata a porre affianco le diverse versioni esistenti sulla tragedia, in modo da dare la possibilità del dubbio, ed evitare di coprire una parte di un passato ancora non chiarito. In secondo luogo, a me, che come casco bianco mi ritrovo in Calmucchia, interessa raccontare come questo popolo abbia scelto di ricordare la propria tragedia e che significato abbia voluto dare ad essa.
Ogni 28 dicembre, il giorno in cui tutti i Calmucchi furono tutti radunati e poi portati ad Astrahan, si tiene ad Èlista una manifestazione pubblica attorno al museo che ricorda la deportazione – il музей «Репрессированные, но не сломленные», “represso ma non distrutto”: un vagone di un treno merci, proprio uno di quelli usati per trasportare i calmucchi in Siberia. Arrivando alla piccola piazza io e gli altri due caschi bianchi siamo rimasti stupiti nel vedere quanta gente partecipasse all’evento: era stata bloccata la circolazione di alcune strade e si era radunata talmente tanta gente attorno al piccolo museo che era quasi impossibile vederlo. Molti uomini e donne portavano garofani rossi in mano. La stragrande maggioranza della folla era composta da calmucchi ma partecipavano anche diversi russi ortodossi. Erano presenti tutte le autorità e diverse televisioni locali insieme a vari giornalisti. Nell’aria, nonostante l’umidità e il freddo, c’era un forte odore di thè caldo e di dolci fritti che venivano distribuiti da dei banchetti. Alberta, la nostra responsabile che ci accompagnava, ci disse che il mangiare dolci è uno dei gesti che tradizionalmente i Russi compiono nei momenti di lutto: il dolce rappresenta il bene che la persona morta ha compiuto in vita e viene donato chiedendo che si preghi per il defunto. Questi dolci vengono specialmente regalati ai bambini, perché essi sono considerati anime semplici e pure, e, pertanto, la loro preghiera è un modo per donare maggiore purezza al morto.
Poco dopo ebbe inizio la manifestazione: da dei megafoni venivano diffuse le testimonianze dei sopravvissuti, in parte in lingua calmucca in parte in russo. Le testimonianze si alternavano a canti che ricordavano la guerra e la deportazione. Non ci fu alcun discorso da parte di qualche politico. Ad un certo punto giunsero dei rappresentanti delle varie forze dell’ordine e ciascuno di loro reggeva una corona funebre. Essi passarono in mezzo alla folla e incominciarono a salire per la piccola collina che sta dietro il museo. In cima a questa collina si erge un monumento moderno, sempre a ricordo dei morti, chiamato «Исход и возвращение» “l’esito e il ritorno”. Essi salivano girando lentamente attorno al colle camminando su un piccolo sentiero in asfalto. La folla si dispose a corteo e molto ordinatamente cominciò a seguire i membri delle forze dell’ordine. Nel frattempo continuavano a suonare i canti di guerra.
Arrivati in cima ci accorgemmo che le corone funebri erano state deposte attorno al monumento e che molte persone lasciavano i propri garofani insieme a piccole monetine, come segno di offerta. Scendemmo per la collina e decidemmo di visitare il museo, dato che la manifestazione era a tutti gli effetti conclusa.
Entrammo a fatica nel piccolo vagone: molte altre persone avevano preso la nostra stessa decisione e anche qui, sopra i piccoli oggetti un tempo appartenuti ai deportati, lasciavano altri fiori e altre monetine. Proprio dentro il museo incontrammo i responsabili che ne hanno cura. Ci accolsero calorosamente traducendoci diverse di quelle testimonianze che prima avevamo semplicemente ascoltato ma non inteso durante la manifestazione.
Il direttore del museo, Борис Очиров, ci raccontò in particolare che il popolo calmucco era da sempre stato alleato della Russia ortodossa nelle varie guerre. «Sostennero che ci eravamo alleati alla Germania nazista. Che eravamo dei traditori. Non era vero. Abbiamo combattuto ventuno guerre affianco al popolo russo». Egli ci disse ciò probabilmente perché durante la seconda guerra mondiale vi furono alcuni calmucchi che, per preservare la religione buddista e l’autonomia della Calmucchia, si allearono ai nazisti. Pare che proprio questo fatto abbia portato Stalin ad ordinare la deportazione per tutti i calmucchi. Gli chiedemmo se oggi si sentissero russi o meno, se sentissero di fare parte della Russia attuale. «Siamo sempre stati stranieri. In questo sta la nostra eredità di popolo nomade. Ovunque il nostro popolo è passato è sempre risultato diverso. Non siamo russi, come non siamo Siberiani».
In quel mentre capì in modo definitivo che la Russia è a tutti gli effetti una Federazione, un insieme di popoli davvero diversi. Non esiste la Russia, esistono le Russie. Cominciai a pensare se non fosse pericoloso continuare a ricordare così solennemente tanta violenza tra due popoli, che erano da molto tempo vicini ma che avevano sempre marcato i confini, e che durante la guerra si erano vicendevolmente traditi. In mente avevo, anche, le notizie di bande di giovani calmucchi che la sera girano per la città per picchiare altri giovani russi. Tanta memoria del passato, anche se non politicizzata, perché nessun politico di nessun partito aveva parlato, non rischia di generare altre ferite nel presente? Come fanno dei popoli a restare insieme pur rimanendo diversi?
Esattamente in quel momento venne data, sempre dal direttore, la risposta alla mia tacita domanda: «Noi ricordiamo non per ricordare quanto abbiamo patito a causa del popolo russo, ma per ricordare quanti tra Russi, Tedeschi e Siberiani, ci hanno sostenuto. Noi ricordiamo i nostri morti, il bene che hanno comunque dato nella loro vita, e tutti coloro che furono giusti nei loro e nei nostri confronti. La violenza deve essere ricordata non per recare altra violenza ma per porre fine a tutte le violenze, per ricordare che esse comunque non annullano il bene».
Forse non tutti i calmucchi la pensano come le persone che abbiamo incontrato. Sicuramente, però, queste persone e la loro memoria dicono che è possibile mantenere la dignità della propria diversità come popolo, ma che essa non deve scadere nel completo nazionalismo: i popoli vivono se si aiutano a vicenda, se condividono il loro cammino di comune sofferenza. Inoltre, i Calmucchi con la loro testimonianza ricordano che il male subito, per quanto esso sia stato truce, è possibile rielaborarlo in memoria di bene, ossia di quel bene che proprio in quel momento gravissimo non è venuto a mancare.
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