Quando ho messo piede per la prima volta in casa famiglia, ero completamente ignara del fatto che mi stavo immergendo in una rosa di microcosmi. Perché credo sia questo ciò che, da tre mesi a questa parte, mi viene riproposto ogni giorno: diversi mondi, ognuno con il suo mistero, ma tutti caratterizzati da quell’immancabile componente di bisogno, a cui è intimamente legato un naturale desiderio di farsi visitare, di accogliere. Così, nel tentativo sempre confuso di rispondere a questa varia e molteplice richiesta, sono io, quasi paradossalmente, ad imparare la vastità, la ricchezza e l’infinita creatività della vita.
Che siano dunque loro, questi universi fragili e fecondi allo stesso tempo, a parlare..
“E’ sempre bella la prima volta in cui faccio una cosa. Quando la ripeto, la seconda o la terza volta, già sembra molto meno bella della prima” (G.)
A nove anni, c’è qui chi mi fa riflettere su questa dinamica umana, tanto semplice quanto frequente se non pericolosa: il nuovo, solo perché nuovo, sembra molte volte il bello, l’interessante, il vero, l’accattivante. E spesso, per la foga di cercare la novità, per il desiderio non riflettuto di sentir vibrare le proprie viscere, di entusiasmarsi, si perde di vista ciò che c’è qui ed ora, la parte bella che ogni quotidianità, silenziosamente, ci dona, il senso profondo che anche un solo istante tra gli atti ripetuti delle abitudini racchiude. Si perde di vista che ci si costruisce giorno dopo giorno, e non di novità in novità. Questa è anche la lenta e attenta costruzione che ogni casa famiglia tenta con ogni viso umano che accoglie: non si tratta infatti di far credere che esista la possibilità di svolte radicali, o di una repentina salvezza per tutti, ma di restituire il suo senso al quotidiano, un senso che per molti accolti, e per le più disparate motivazioni, si è perso o è stato dimenticato.
“Vedere nell’ostia il corpo di Cristo: no, qui non devi capire niente, per farlo devi solo lasciarti andare” (S.)
È così che mi ammutolisce chi ha solo tredici anni, inviandomi un messaggio il cui valore va aldilà di ogni fede particolare. Accettare il mistero, l’indimostrabile, avere l’umiltà di ammettere che non è possibile ridurre tutto alla nostra comprensione né tantomeno al nostro potere, significa aprire in sé uno spazio capace di accogliere ciò che è estraneo, ciò che c’è ed ha il suo senso anche se al mio sguardo è impalpabile. Lasciarsi andare significa lasciare che a muovere l’essere umano sia non soltanto la ragione, contenitore delle nostre capacità di conoscere, ma anche le emozioni, perché è l’impatto emotivo il motore della relazione, e ancora prima della fiducia in una relazione che – seppur sfumata da toni enigmatici, come quella con Dio – può instaurarsi. Riscopro dunque un altro principio che percorre l’accoglienza in casa famiglia: lascia la porta aperta sul mondo, lasciala aperta affinché ad entrare qui sia un universo di sconosciuti, ognuno con la sua storia, le sue macchie e le sue croci sulle spalle, dunque, ognuno con il suo dono.
“Sono fragile” (P.)
Quando sono malato, quando mi sento solo, quando manco di punti di riferimento, sono fragile. Ancora così piccolo, sei tu a ricordarmi l’universalità della fragilità, connaturata al nostro essere umani aldilà di ogni età, etnia, religione, o qualsivoglia altro particolarismo. Mi ricordi che questa fragilità non va dimenticata, ma va accettata e va detta, come tu non ti vergogni di fare; poiché è l’autentica consapevolezza di sé ciò che rende possibile un confronto altrettanto autentico con tutto ciò che sta fuori da sé.
“Mi sento più leggera, emotivamente” (D.)
È con l’anzianità, mi sussurri, che arriva la leggerezza emotiva, che è l’auto-consapevolezza delle proprie emozioni. Arriva addirittura per te, che hai alle spalle una vita che non ti ha concesso l’autonomia fondamentale, quella dei movimenti, quella di poterti prendere cura di te senza ausili esterni. Chi sono dunque io, per pretendere di possederla adesso? Chi sono dunque io, che dovrei anzitutto ringraziare per i vantaggi che ho rispetto a te, per pretendere di non arrabbiarmi, per pretendere che le relazioni umane che vivo si ripuliscano presto dalle tensioni, dalle sensazioni di soffocamento, di difficoltà o incomprensione? La leggerezza emotiva è il tempo della maturità, è un cammino, e le sue tappe non si possono accelerare perché la sua particolarità è che va percorso al giusto ritmo, il ritmo delle esperienze, degli incontri e dei cambiamenti … ciò che importa è imboccarlo. Cadendo e rialzandosi, è sulla melodia di questo cammino che avanza una casa famiglia; è grazie a questo tragitto, sempre cosparso di sentieri a incrociare la sua via, che essa, trasformandosi e formandosi, si arricchisce.
“Anche nella situazione più vergognosa, se fai un gesto d’amore torni già in Dio” (H.)
No, non si tratta di giustificare la violenza, l’illegalità o l’ingiustizia qui. Al contrario, forse è proprio questo l’unico modo per uscirne. Se anche la più corrotta e inumana delle dinamiche non riesce ad uccidere l’impulso all’amore, il gesto d’umanità disinteressato, la volontà di proteggere, sostenere, curare, allora la speranza si espande ovunque. Ed è da quell’impulso che bisogna ripartire, si tratta di lavorare affinché quello slancio vitale venga percepito e ascoltato, per uscire da ciò che fa male. Non sarà dunque il tuo peccato a farmi allontanare da te .. un’altra idea-guida che permette, a te che me la racconti, di essere qui; e a me che ti ascolto, di ricordarmi che non è mai tardi per perdonarsi.
Dietro queste brevi parole non si cela di certo l’intenzione di fare un’apologia; ogni spazio umano racchiude sempre, insieme alle sue bellezze, le sue zone difettose. Credo si tratti piuttosto della volontà di ricordarmi, e di testimoniare, la ricchezza e la profondità degli insegnamenti che, da questo piccolissimo angolo di mondo, nelle gioie come nelle difficoltà, mi vengono offerte ogni giorno. Ringrazio dunque chi, già da tempo immerso in questa rosa, mi invita a sforzarmi per continuare a riconoscerle.
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