L’ecosistema più ricco di biodiversità al mondo: ospita circa 60.000 specie di piante, 1000 specie di uccelli e oltre 300 specie di mammiferi. Attraversa nove paesi del Sud America per circa il 5% della superficie terrestre. Più grande dell’intera Europa Occidentale con 650 milioni di ettari di verde che stanno scomparendo rapidamente, ogni anno quasi due milioni di ettari di foresta vengono distrutti, erodendo un patrimonio impossibile da ricreare.
Sono alle porte di questo pianeta a sé stante, ma ancora nessun animale visto nella propria libertà assoluta. Costruzioni impietose e distese bruciate come panorama quotidiano, piantagioni e fazendas novità passate in continua moda. Non voglio essere l’europeo furente né tanto meno il professore progressista, dettare legge o tiranneggiare colonizzando ormai solo le menti, voglio soltanto raccontarvi l’attuale triste raffigurazione della foresta Amazzonica, il polmone della nostra Terra.
Allevamento: la prima causa di deforestazione
La causa principale della deforestazione, circa l’80%, è dovuta all’allevamento bovino in continua espansione. Il punto di svolta fu quando i coloni cominciarono a stabilire le aziende agricole nel corso degli anni settanta all’interno della foresta, radendo a terra bruciata centinai di km² per instaurare pascoli e piantagioni, questo richiedeva poco lavoro e generava decenti profitti causando però ingenti danni ambientali.
Le piogge torrenziali si abbattono sulle valli senza alberi, erodendo il terreno e trascinando via il suolo fertile. La terra nuda, battuta dal sole tropicale, diviene così inutilizzabile per l’agricoltura dopo poco tempo.
Parliamoci chiaro, la foresta è vista solo come risorsa per il pascolo del bestiame, per il petrolio, per i legni preziosi, per lo spazio abitativo e agricolo immediato, per il lavoro stradale e farmaceutico. Negli ultimi 40 anni il numero di abitanti nella regione amazzonica è passato da sei a venticinque milioni e la superficie forestale si è ridotta del 20%, ad oggi 700 mila km² di Amazzonia brasiliana sono stati distrutti, una superficie superiore a due volte l’Italia. Diversi specialisti indicano nell’aumento della domanda internazionale di soia e di carne la responsabilità maggiore di questa situazione. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura il 91% dei terreni disboscati nel finire degli anni settanta è attualmente utilizzato per il commercio delle carni bovine.
McDonald’s e Burger King, i più grandi consumatori di carne bovina al mondo, sono due delle molte multinazionali che usano veleni chimici per disintegrare vaste aree della foresta centro-americana per la creazione di pascoli, quei maledetti pascoli che alimentano il malato sistema consumistico umano.
Nel 2009 dopo tre anni di indagini sotto copertura, Greenpeace pubblicò l’inchiesta “Amazzonia, che macello!” fornendo una sconcertante fotografia del complesso mercato globale della carne e della pelle.
Il governo Brasiliano ammette che solo fermando la deforestazione illegale sarà possibile attuare il rimboschimento. Allo stesso tempo, però, finanzia ed è azionista delle più importanti aziende del comparto zootecnico, il principale motore della deforestazione. Partecipa con quote di miliardi di dollari alla filiera della carne e della pelle che trae profitto dalla vendita di capi di bestiame a buon mercato provenienti da aree di foresta amazzonica distrutte. Annuncia fiero che alle soglie del 2020 le esportazioni estere di carni e pelli bovine saranno duplicate mentre Dilma Rousseff, ex presidentessa brasiliana allontanata tempo fa dal governo e sostituita da Michel Temer, disse che si sarebbe impegnata ad attuare una riforestazione per 120 mila km² con obiettivo deforestazione zero entro il 2025.
Il Paese è il quarto più grande emettitore di gas serra a livello globale dopo Usa, Cina e Indonesia. La maggior parte delle emissioni del paese sono causate dagli incendi della foresta pluviale Amazzonica.
Il Brasile naturalmente non è il solo a innescare i meccanismi che accelerano la deforestazione e i cambiamenti climatici né può assumersi, da solo, la responsabilità di risolvere il problema. La Banca Mondiale identifica “l’agricoltura di frontiera che invade la foresta amazzonica” come la sfida principale da affrontare per ridurre il cambiamento climatico. Considerato il commercio massivo e globale dei beni di consumo proveniente dalle attività agricole parte della responsabilità ricade direttamente su tutte quelle multinazionali e corporazioni che stanno dietro a marchi riconosciuti come rispettabili e di grande valore che, attraverso una cieca politica di consumo delle materie prime, causano la distruzione dell’ultimo polmone del mondo e del nostro clima.
La mafia del legno
L’esportazione del legno illegale è la seconda problematica che causa deforestazione. La mafia del legno continua ad appiccare incendi dolosi in aree abitate da comunità indigene che proteggono la foresta amazzonica, per costringerle ad abbandonare i propri territori e continuare ad alimentare i traffici illegali in aree protette. Le specie legnose come ipé, jatobá, cumarú, massaranduba e garapa arrivano a valere più di mille euro per metro cubo e sono a rischio. Per estrarre questo legno pregiato, la foresta viene frammentata e degradata: vengono create appositamente strade che consentono alle aziende un accesso più facile per il successivo taglio “a raso”. L’estrazione di questo legno apre le porte alla deforestazione selvaggia. Il legno tagliato illegalmente passa attraverso un vero e proprio meccanismo di riciclaggio: dalla falsificazione di documenti ufficiali alla corruzione di coloro che dovrebbero controllare. Nel periodo tra agosto e ottobre del 2015 nello stato del Maranhão è stata registrata una media di 560 nuovi focolai al giorno con le fiamme che hanno consumato circa 190 mila ettari, ossia il 45% della foresta del territorio Indigeno di Araribóia. Tutto ciò mette in serio pericolo la sopravvivenza di numerose comunità Guajajara e Awá-Guajá che sono tra le ultime tribù indigene a essere entrate in contatto con l’occidente e tra i popoli più minacciati al mondo.
“La deforestazione illegale in territori indigeni è una piaga che affligge tutto il Brasile. Le popolazioni locali lottano per proteggere la loro casa e invece di essere tutelate, come previsto dalla legge brasiliana, vengono lasciate in balia della mafia del legno che continua a prosperare ricorrendo sempre più spesso alla violenza. La continua richiesta di legname pregiato brasiliano è il principale motore della mafia del legno, e alimenta la violenza e le ritorsioni che portano a questi terribili incendi. È responsabilità dei compratori internazionali di legname amazzonico garantire che le loro filiere non siano collegate alla deforestazione illegale”, dichiara Martina Borghi, Campagna Foreste di Greenpeace Italia.
Ed il petrolio?
Certo questo è l’altro grande problema, l’altra grande minaccia, l’altra grande assurdità.
“Quando nel 1972 Texaco perforò il pozzo di Tiputini ero lì, ed ero lì anche quando nel 1991 Petrobras perforò il pozzo Ishpingo nel parco nazionale Yasuni” , continua Martina.
Sotto il parco di Yasuni, designato dall’UNESCO “Riserva della Biosfera” nel 1989, giacciono le ultime importanti riserve petrolifere ecuadoriane. Durante le fasi glaciali la foresta amazzonica si smembrava e diventava una sorta di steppa, alcune specie si estinguevano, altre si modificavano, altre ancora migravano. Durante questi grandi sconvolgimenti climatici rimanevano però alcuni lembi isolati di foresta, delle autentiche isole, dove i processi evolutivi continuavano a procedere formando la grandiosa biodiversità che caratterizza l’Amazzonia. Una di queste isole era proprio Yasuni, che essendo sull’equatore era anche quella più attiva dal punto di vista biologico. L’Ecuador è un paese affogato da debiti internazionali e gli interessi economici stanno precludendo la tutela ambientale di questa oasi. Nell’inchiesta di Nina Bigalke le strade costruite illegalmente all’interno di aree protette definite inviolabili sono testimonianza che il presidente Rafael Correa non vuole fermare ma ampliare le estrazioni nel parco.
Nell’aprile del 2014 ritenne non validi due terzi delle 756 mila firme messe insieme dagli ambientalisti di YASunidos, che chiedevano che venisse organizzato un referendum sulla possibilità di trivellare un area della foresta chiamata Block 43. Un mese dopo furono firmati dei permessi per permettere a Petroamazonas di estrarre greggio anche qui: le operazioni inizieranno quest’anno.
“Il rischio che corriamo è quello di veder sparire un lembo di foresta che racchiude la storia della vita terrestre come si è evoluta durante le ultime centinaia di migliaia di anni, per un bene che durerà al massimo vent’anni, cioè fino al momento in cui si esaurirà il giacimento”.
I recenti disastri ambientali
Come se l’uomo non avesse freno, fosse accecato dal potere economico e non intuisse che sta rotolando sempre più vicino al burrone del non ritorno. Sono passati quasi sei mesi dal disastro minerario che ha avvelenato il Brasile dando luogo alla catastrofe ambientale peggiore nella storia del paese e tra le più gravi mai avvenute al mondo. Ormai nessuno lo ricorda più ma lo scorso cinque novembre, giorno del mio compleanno, nello stato del Minas Gerais sono crollate due dighe che arginavano tonnellate di fanghi tossici provocando la morte di diciannove persone e devastando l’ambiente, in particolare il Rio Doce, uno dei più grandi corsi d’acqua del Brasile, indispensabile per il sostentamento delle comunità locali e delle specie animali e vegetali che popolavano l’area.
Boom! Successo! Accaduto! E adesso? Il governo chiede cinque miliardi di risarcimento alla Samarco per il ripristino ed il risanamento ambientale. Bene, ben fatto. Ma perché non prevenire se sapevano che prima o poi sarebbero crollate? Quelle dighe erano vecchie e senza manutenzione, perché non agire prima?
Il ventitré febbraio poi, il Rio delle Amazzoni, il fiume che attraversa alcune delle aree più ricche del pianeta dal punto di vista ambientale e naturalistico, si colorò di nero. In Perù migliaia di barili di petrolio si riversarono nel Marañon, uno dei suoi principali affluenti, dando luogo ad una catastrofe ambientale che senza precedenti nella storia del Paese.
Quale futuro possibile?
Il governo brasiliano sta progettando anche di costruire più di quaranta dighe nel bacino del fiume Tapajós, cinque delle quali sono già in cantiere. Questo maestoso fiume lungo più di 800 km, scende dall’altopiano del Mato Grosso fino a sfociare nel Rio delle Amazzoni a monte della città di Santarém, nello Stato del Parà. Quella di São Luiz do Tapajós sarà la più grande, dopo quella di Belo Monte, con una capacità potenziale di 8.040 Megawatt, un’estensione di sette chilometri e mezzo in linea d’aria ed un bacino idrico grande come la città di New York (729 chilometri quadrati).
Il Brasile sta scegliendo volutamente questi megaprogetti idroelettrici sacrificando un’area immensa e ricca di biodiversità tagliando completamente la strada ad energie sostenibili quali eolica e solare.
In Brasile, nonostante i passi in avanti compiuti negli ultimi anni a tutela dell’Amazzonia, i dati più recenti registrano una preoccupante inversione di rotta. Nel periodo tra l’agosto 2014 e il luglio 2015 la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana è tornata a crescere, con un aumento di circa il 16% rispetto alla rilevazione precedente, come annunciato dal Ministro dell’Ambiente Izabella Teixeira.
Nature, una delle più antiche ed importanti riviste scientifiche esistenti, sostiene che le capacità di resistenza della foresta stiano arrivando al limite. Gli esperti internazionali che analizzano le trasformazioni in atto nel bacino dell’Amazzonia ci confermano che i sintomi fanno pensare che gli attacchi umani, fino ad ora ammortizzati naturalmente dalla foresta, stiano piegando pericolosamente le resistenze. I cambiamenti nella portata dei fiumi e nelle precipitazioni potrebbero infatti rappresentare dei pericolosi indicatori d’allarme. Fino ad ora tutti gli studi avevano mostrato una grande resilienza: la capacità di mantenere l’equilibrio del sistema nonostante l’intervento esterno dell’uomo, alle deforestazioni massicce ed agli incendi. La grande foresta mostrerebbe segni di cedimento con modifiche nei cicli dell’energia e dell’acqua.
Potrei scrivere ancora, stancare le vostre palpebre e farvi rabbrividire. Basta cliccare “Amazzonia” su Google ed escono centinaia di pubblicazioni, inchieste e testimonianze. Sembra che il male che stiamo causando al mondo sia normale e sia ormai metabolizzato e trapassato dai padroni di tutti noi, quelli che decidono le sorti della nostra terra.
Grazie alla biodiversità da miliardi di anni la vita ha saputo adattarsi all’ambiente. La stessa umanità è il risultato di una lunghissima selezione adattiva delle specie. Le forme di vita possono nascondere segreti non ancora conosciuti dall’uomo che potrebbero essere utili in futuro. La perdita della biodiversità equivale ad una irreversibile perdita di opportunità future per l’uomo.
Questa foresta costituisce un tesoro ricchissimo, che si protende dal basso all’alto, da terra fino alle cime degli alberi per oltre 60 metri. L’Amazzonia è qualcosa di più di un ecosistema, di una grande foresta o di un immenso paese da proteggere: l’Amazzonia è il nostro futuro.
Fonti: Greenpeace, WWF, Nature, Internazionale
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