Un anno in Africa contribuisce a sradicare pregiudizi profondi che ci portiamo dentro perché siamo nati, cresciuti ed educati nella fetta di mondo dove, forse solo apparentemente, tutto va bene.
Arrivi in Africa pensando: “Andiamo a vedere come sono incivili, maleducati e puzzolenti i neri”. Arrivi in Africa e ti rendi conto di quanto, per tutti questi anni, sia stato tu l’incivile. Perché sì, pur avendo ricevuto un’educazione impeccabile, anni e anni di studio sui libri pensando di diventare una persona migliore non sono serviti a centrare il bersaglio diretto.
Arrivi in Africa e ti scontri con persone con cui senti di non spartire nemmeno il 10% dello stile di vita. I primi tempi fai fatica ad inserirti in meccanismi “culturali” così differenti dai tuoi. Sgrani gli occhi quando vedi una mamma che si porta il bambino sul dorso ovunque essa vada, che tiene un neonato h24 nella sua boutique col ventilatore rotto mentre fuori tutti i commercianti si gridano addosso. O ancora i bambini con la latta a tracolla che scalzi fanno l’elemosina ai posti di scalo.
Arrivi in Africa e vedi le donne che si caricano sulla schiena chili e chili di legna fino alle dieci o alle undici di sera, perché qui non ci sono né orari né sindacati.
Allora inizi a ragionare sulla base del parametro che qualcuno o qualcosa ha contribuito a radicare nella tua forma mentis: i diritti umani. Ti arrabbi perché tutto un intero sistema sul quale hai costruito la tua vita cozza con il diverso.
Lo chiamiamo appunto sistema di valori. Ad esempio, io sono cresciuta in una società in cui il principio di laicità è qualcosa che è stato conquistato con il sangue dai nostri predecessori, è qualcosa che i governanti cercano di difendere a spada tratta, spesso e volentieri contraddicendosi nelle politiche messe in atto. Hanno cercato quindi di renderlo universale con l’intento di proteggerlo da minacce esterne. Anche il sistema di informazione è stato manipolato per questo fine. Sfoglio i giornali europei e le sole notizie in rilievo riguardano la minaccia terroristica, il pericolo dell’islam, quanto ricevono i migranti nei centri di accoglienza mentre gli italiani sono disoccupati. Questa falla ha contribuito a renderci tutti un po’ più impauriti e intolleranti. Qui in Africa, minacce terroristiche a parte, nessuno si è mai sognato di dirmi di non frequentare i musulmani. In tempo di ramadam mi è stato persino offerto di partecipare ad una giornata di digiuno e riesco a fare cene e feste dove almeno tre religioni differenti siedono allo stesso tavolo.
Qui in Africa ho imparato a conoscere un sistema di valori che mi affascina e mi spiazza allo stesso tempo. Anche qui è pieno di contraddizioni, ma credo fermamente che sia tutto più genuino e autentico rispetto al mondo occidentale. L’aspetto che più mi affascina sono le relazioni interpersonali. Qui non esiste individualismo, la famiglia è il pilastro su cui si fonda il labirinto sociale; essa è la colonna portante degli individui che vi si identificano prima di tutto come esseri comunitari. Ne consegue che in Africa non potrai mai sentirti solo. Forse devo ritenermi una persona privilegiata in quanto ho la pelle bianca perché tutti stravedono per me e farebbero l’impossibile pur d’avermi come amica. Nonostante questo ho visto formidabili esternazioni di solidarietà umana. Ieri sera per esempio mi trovavo in una boîte de nuit dove un povero disgraziato senza gambe e braccia si è buttato dalla carrozzina per scendere in pista: ballava così energicamente che intorno a lui si è formato un enorme cerchio con mani che battevano a ritmo e occhi puntati su di lui. Tutti erano lì ad ammirarlo e lui era felice. In quel momento ho compreso che la stessa cosa non avrebbe mai potuto verificarsi in una discoteca italiana, anzi probabilmente il povero sfortunato sarebbe stato deriso o ignorato da tutti.
Qui in Africa l’uomo è il centro di tutto. Un amico burkinabé ha viaggiato in Italia ed è rimasto colpito dai lavaggi automatici di veicoli. Ha persino fotografato le spazzole automatiche. Mi ha detto scioccato che ci lamentiamo che non c’è lavoro e poi lo diamo ad un automa. In Africa il lavoro viene fatto a mani nude, con olio di gomito e con il sorriso.
Anche l’idea di igiene mi ha spiazzata. Ho visto africani maniaci del pulito, che mangiano con le mani e non si alzano dal tavolo senza una bella toilette, che vivono in case con latrine esterne (nei casi più fortunati) che sono più pulite delle nostre, che si fanno tre o quattro docce al giorno. Ho visto panni stesi luccicare in cortili ordinatissimi e mi sono seduta in salotti profumati.
Gli uomini africani mi hanno insegnato che lo sviluppo parte dall’arte di (re)inventarsi. Qui ci sono ragazzi con la quinta elementare che saprebbero fare di tutto perché dotati di un grande spirito d’osservazione. Io, che non sono nemmeno capace di piantare un chiodo, mi sono sentita più volte un’inetta. Loro no, riescono a districarsi in qualsiasi situazione e attraverso la coesione possono fare grandi cose. Ma evidentemente ai potenti fa comodo non riconoscere tutto questo e allora spacciamo l’Africa per quel posto del mondo che deve essere rimesso in sesto. Ci stiamo provando da 60 anni e ancora non ci siamo riusciti, non possiamo dire alle persone come devono vivere. Possiamo piuttosto venire, sederci al loro fianco e proporre loro di ascoltare da dove veniamo e come viviamo. Possiamo mettere in moto un meccanismo di confronto che sarà per forza arricchente e che produrrà da solo un cambiamento da entrambe le parti.
La mia esperienza in Africa ha contribuito veramente a mettere in discussione istituti e meccanismi che hanno regolato i miei primi 30 anni di vita. Sarà considerata una debolezza di carattere ma io voglio vederla come l’umiltà di fare un passo indietro e capire che tutto è relativo, che ogni percezione cambia in funzione del tempo e del contesto in cui si sviluppa.
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