Dopo Giovanni Ramonda, mentore e responsabile della Comunità Papa Giovanni XXIII nel mondo, non potevano mancare gli angeli custodi in questa mia esperienza di vita. I tre responsabili che gestiscono la prima tappa, Ressurreição, che ogni giorno mi insegnano frammenti di sapienza ed esperienza nella convivenza all’interno di una comunità terapeutica.
André, il più giovane. Audace e complesso.
Potresti descrivere la tua vita come una presentazione?
Sono Marcos André De Quadros, sono stato dipendente da sostanze stupefacenti per diciassette anni e da sette ne sono uscito. Oggi sono coordinatore nella comunità che mi accolse e tutti i giorni lotto per la mia sobrietà. Ho conosciuto una persona che oggi fa parte del mio cambiamento, mi insegnò molto e mi aiutò a cambiare vita. Mi specchio molto in lui, è il signor Dimitri. Oggi Dio è il mio primo pensiero, sono una persona felice perché non esiste cosa migliore di vivere come figlio di Dio, facendo solo il bene agli altri.
Qual è stata la maggiore difficoltà quando hai terminato il percorso terapeutico? Oggi come vivi la vita dentro la società?
Quando finì il percorso fu difficile riadattarmi alla società. Ero disposto a vivere in modo diverso, ma le porte non si aprivano, esistevano molti pregiudizi a causa della mia realtà passata e questo mi rendeva triste. Dopo sette anni di lotta oggi ho conquistato il mio spazio, le persone mi rispettano, sono visto come una persona nuova e non mi lascio trasportare per quello che la società pensa. Oggi riesco ad essere me stesso.
Ti piacerebbe conoscere una realtà terapeutica in Italia?
Si, chiaro. In Italia mi immagino un’altra cultura, un altro modo di pensare, sono incuriosito. Anche il trattamento è più lungo di quello brasiliano e questo sicuramente mi aiuterebbe a migliorare la mia sobrietà e la mia relazione con il mondo.
Un po’ tutti siamo “drogati” di qualcosa, ognuno di noi ha la propria dose giornaliera. Tu pensi lo stesso? Come una comunità terapeutica cambia realmente una persona?
Si, penso che tutti abbiamo una propria e privata “droga” nella vita. La comunità aiuta ad allontanare questa dalle persone lavorando sui difetti di carattere, dona gli strumenti per definire la giusta strada. Mostra valori e regole ideali per chi vuole veramente cambiare vita, sapendo che noi scegliamo di cambiare, nessuno ci obbliga.
Batista, occhi di ghiaccio. Rigido e giusto.
Potresti descrivere la tua vita come una presentazione?
Che posso dire, sono João Batista Carneiro Vilar, sposato con quattro figli e tre nipoti. Diacono. Coordinatore di questa comunità terapeutica da sette anni e felice di lavorare con questo popolo a noi donato. Sento di avere una personalità forte, diretta e mi esprimo senza troppi giri di parole. Sincerità come base di vita.
Cosa pensi della figura del casco bianco all’interno di una comunità terapeutica?
Il casco bianco è importante per il nostro lavoro terapeutico. La sua semplice presenza già contribuisce e dona tanto agli interni. Sicuramente motivazione e fatica sono da mettere in conto rimanendo in contatto con questa realtà. Credo che questa esperienza, il cambio culturale, sia un incentivo di grande crescita personale. Penso anche che il casco bianco apprenda molto più di ciò che dà in questo contesto.
Secondo te la Comunità Papa Giovanni XXIII sta realizzando un buon lavoro in Brasile contando anche le altre realtà terapeutiche?
Rispondo di sì, anche se conosco solo il lavoro fatto a Castanhal, da tutti noi. Nel Minas Gerais so dell’esistenza di altre realtà terapeutiche ma non le ho mai visitate. Conosco però i coordinatori ed il responsabile e mi sembrano molto idonei per la vita comunitaria.
Il cambio di responsabile delle comunità qua a Castanhal ha donato energia nuova migliorando il contesto? Dove si potrebbe migliorare ulteriormente?
Ancora è presto per affermare se questo cambio sia stato buono o no. Penso però che il nuovo responsabile abbia le competenze per dare continuità al lavoro donatogli. Una cosa dove potremmo migliore come comunità terapeutiche è quello che noi chiamiamo laboterapia, oltre a quello che già facciamo potremmo includere un lavoro sul riciclo di materiali nella prima e nella seconda tappa del percorso terapeutico.
Edimar, il professore. Dinamico e osservatore.
Potresti descrivere la tua vita come una presentazione?
Edimar Jose Do Nascimento, quarantaquattro anni, sposato. Diciassette anni nel mondo della droga e sette con la Comunità Papa Giovanni XXIII, cinque come coordinatore dopo varie esperienze come interno in una comunità terapeutica.
Come il tuo passato ti ha influenzato nella scelta di diventare coordinatore? Perché non ricercare altre realtà?
Prima di tutto risolsi i miei problemi quando capii che da solo non riuscivo ad andare avanti. Il mio passato, dove non riuscivo a costruire qualcosa di concreto senza l’aiuto di persone amiche, riflette molto il mio presente. La comunità terapeutica è per me fondamentale, la forza che mi aiuta ogni giorno ad andare avanti. La spiritualità, la condivisione sono per me essenziali. Non ho ricercato altre realtà perché già conosciute, sperimentate, qua lavoro ogni giorno sui miei difetti di carattere e questa è la medicina più sana che un uomo può ricevere per migliorarsi.
Come si può contrastare il problema della dipendenza in una persona? La comunità terapeutica è l’unica soluzione?
No, esistono due realtà: atendimento ambulatorio o comunità terapeutica. Il primo anche se valido si limita a “ripulire” dalle sostanze stupefacenti, il suo unico scopo è rendere pulita la persona dal punto di vista fisico. La comunità terapeutica si interroga anche sull’aspetto psicologico, quindi mi viene naturale pensare che il lavoro fatto dentro la comunità terapeutica sia più completo e profondo. La completa distanza dalla società con un lavoro realizzato in equipe da noi coordinatori, famiglie e figure professionali nel campo psicologico e medico è sicuramente la chiave per contrastare la dipendenza da alcool e droga in una persona, con risultati più che soddisfacenti.
Che cosa apprende una persona dentro uno comunità terapeutica, quale la maggiore difficoltà ad inizio e fine percorso? Quanto conta la fede e la famiglia?
Dentro una comunità terapeutica una persona apprende il rispetto, l’accettazione di se, il cambiamento, l’amore per gli altri, umiltà, confidenza, pazienza e tante altre parole che ora mi sfuggono, è chiaro che tutto questo è possibile se l’interno decide di essere veritiero e disposto al cambiamento. Per quanto riguarda le difficoltà è complicato specificare, tutti noi siamo diversi e non c’è una difficoltà uguale. Ad inizio percorso, sicuramente la maggior parte degli interni avverte fatica nella relazione ed una mancanza di accettazione di se stessi è quasi sempre presente. A fine percorso invece il problema più evidente è psicologico, la paura di ricadere o l’abbandono famigliare. Per concludere la fede e la famiglia sono due punti cruciali nel recupero dell’interno, se mancano questi sarà quasi certamente un buco nell’acqua.
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